giovedì 27 gennaio 2011
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Chiamare le cose con il loro vero nome può essere un nuovo inizio. Nei primi giorni del 2011 la giunta regionale della Calabria ha deciso di chiamare l’organizzazione criminale che tormenta quella parte del territorio meridionale con il suo nome: ’ndrangheta. E lo ha fatto mettendolo nero su bianco, con una proposta di legge per "Interventi regionali di sostegno alle imprese vittime di reati di ’ndrangheta e disposizioni in materia di contrasto alle infiltrazioni mafiose nel settore dell’imprenditoria". Una piccola rivoluzione linguistica che la giunta spiega così: «È una precisa presa di coscienza che si esprime nel dare alle cose, appunto il loro nome». E a supporto di questa scelta si sottolinea come il termine ’ndrangheta appaia ormai nei testi giornalistici e sociologici e si ritrovi anche nell’articolo 416 bis del codice penale che lo utilizza «in un contesto squisitamente giuridico».Per chi ricorda come solo qualche anno fa, in alcune regioni del Sud (basti pensare alla Puglia della nascente Sacra Corona), larghi settori del ceto dirigente rifiutassero con tenacia la dura realtà delle infiltrazioni della malavita organizzata, quello che sta accadendo può apparire non solo come un atto di coraggio intellettuale, ma anche come una piccola ma significativa svolta nei rapporti fra i Palazzi della politica e la società civile. Infatti, per affrontare un nemico insidioso, feroce e potente come la ’ndrangheta, non basta il coraggio. Occorrono una serie di circostanze favorevoli: la maturazione diffusa, nella popolazione, di una profonda consapevolezza del fenomeno nella sua effettiva drammaticità; la formazione del consenso popolare necessario a sostenere scelte così impegnative; la capacità di armonizzare l’attività della macchina amministrativa con le svolte politiche, perché qualcuno non remi contro, inceppando le procedure; la possibilità di indicare alle forze produttive che un’altra strada è possibile per stare sul mercato. Tutto questo è già in atto? Non possiamo esserne certi, ma possiamo augurarcelo. E possiamo volerlo.Così come possiamo affermare che il tentativo di introdurre una logica premiale che favorisca la fedeltà delle imprese allo Stato rispetto alla concorrenza sleale delle organizzazioni malavitose, rappresenta una forte innovazione. Che da un lato prende atto dell’esistenza di una "mafia imprenditrice" e dall’altro cerca di individuare le strade percorribili per costruire, anche al Sud, un forte tessuto di economia legale. Già qualche settimana fa ne aveva parlato il coraggioso procuratore capo della Repubblica di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone: «Per scardinare il sistema funziona una sola leva: rendere antieconomico il patto con la mafia». E si spingeva a proporre l’istituzione delle «white list delle aziende da premiare per il loro comportamento virtuoso, da privilegiare nell’attribuzione dei lavori pubblici».Sembra che la giunta regionale calabrese lo abbia ascoltato così da proporre, all’articolo 1 della proposta di legge, che alle imprese vittime di ’ndrangheta vengano attribuite «posizioni preferenziali nei bandi per la concessione di finanziamenti pubblici e per l’affidamento di contratti con la Regione e con gli enti, aziende e società regionali». Ma la legge va anche oltre e per contrastare le infiltrazioni configura come «inadempimento contrattuale» da parte delle imprese la mancata denuncia all’autorità giudiziaria degli atti estorsivi subiti. Eccola la rivoluzione copernicana: mettersi a fianco delle aziende che rifiutano il ricatto mafioso e aiutarle perché, dopo le violenze, non debbano subire anche il danno di vedere premiate le imprese concorrenti che hanno scelto la scorciatoia di fare affari con la ’ndrangheta.Forse non sarà mai possibile imporre a tutti "il dovere del coraggio", ma almeno sarà possibile rendere conveniente, per tanti, la fedeltà allo Stato. E la prima prova di fedeltà è chiamare le cose con il loro vero nome: ’ndrangheta.
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