Per un mondo libero dall'uccisione legalizzata
giovedì 9 agosto 2018

La modifica del n. 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica sulla pena di morte tocca un elemento sostanziale della dottrina cristiana: il valore assoluto del comandamento «non uccidere», per il quale potremmo affermare che si tratta di intrinsece malum , ovvero male di per se stesso, senza condizioni. Nei tempi più recenti, la Chiesa ha ripetutamente sostenuto la necessità di affermare, custodire e difendere l’intangibilità della vita umana, in ogni sua fase e in qualsiasi situazione, appunto alla luce del valore incondizionato del quinto comandamento – «non uccidere» (Es 20,13; Mt 5,21-22) –, nel senso che nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto distruggere un essere umano. Papa Francesco così si esprimeva nel Videomessaggio al VI Congresso mondiale contro la pena di morte (Oslo, 21-23 giugno 2016): «Il comandamento 'non uccidere' ha un valore assoluto e include sia l’innocente sia il colpevole. [...] Non bisogna dimenticare che il diritto inviolabile alla vita, dono di Dio, appartiene anche al criminale».

Secondo la testimonianza dei Vangeli, per Gesù il delinquente è una persona da redimere destinata alla vita eterna, la cui esistenza terrena non può essere annientata per una decisione degli uomini. Perciò, egli ha respinto apertamente la legge del taglione e la vendetta di sangue, vigente nell’Antico Testamento (cfr. Mt 5, 38. 43-45). Parimenti, il Nuovo Testamento presenta una concezione personalista dell’uomo, ove si riconosce a ogni individuo un valore assoluto, che trascende la società. La persona umana non è ordinata alla società come al proprio fine ultimo, a differenza della cultura greca. Di fatto, non esiste una continuità nella giustificazione del ricorso alla pena di morte che risalga alla tradizione apostolica. Una tradizione unanime non è mai esistita, come ha opportunamente dimostrato Niceto Blasquez Fernandez ( La pena de muerte y biotanasia de Estado , Madrid 2012). I primi tre secoli della vita della Chiesa sono stati contrassegnati da una netta opposizione alla pena capitale, della quale i primi cristiani furono spesso vittime.

Le testimonianze di molti Padri della Chiesa e degli scrittori ecclesiastici antichi confermano l’atteggiamento di rifiuto di ogni forma di violenza, tra cui la pena capitale, specialmente nel contesto della polemica anti-idolatrica verso il mondo pagano, in obbedienza alla distinzione evangelica tra Dio e Cesare (cfr. Mc 12,17). Per Clemente di Alessandria, ai cristiani come tali non è permesso in alcun modo di correggere con la forza i delitti dei peccatori; secondo Eusebio di Cesarea, a Dio non piace la violenza. Il Concilio di Alessandria (388) dichiarava: «La morte e la prigione sono aliene dalla nostra Chiesa». Sant’Atanasio s’indignava contro la perdita del senso evangelico da parte degli ariani: «I procedimenti giudiziari della Chiesa non sono più in accordo col Vangelo, ma i colpevoli si condannano a morte o all’esilio». San Giovanni Crisostomo afferma con chiarezza: «Il Signore proibisce di fare la guerra e di uccidere. Non è nemmeno necessario uccidere l’eretico»; e in modo ancor più netto Lattanzio: «Non è permesso al giusto di accusare direttamente qualcuno di crimine capitale, sia per l’omicidio privato commesso con premeditazione per mezzo di un pugnale sia per l’omicidio pubblico perpetrato dalla accusa giudiziaria. Uccidere un uomo è sempre qualcosa di illecito. Il precetto divino di non uccidere è assoluto e non ammette eccezioni».

Il legame tra religione e politica, ripristinato in epoca costantiniana con la definizione di un patto di mutuo sostegno, consentì al potere politico di decidere sulla questione della vita. Il riconoscimento della legittimità della pena di morte è dunque motivato da una ragione di ordine sociale, alla quale si aggiunge l’interesse della Chiesa a combattere i propri nemici, gli eretici. Di conseguenza, venne affidato al potere temporale dello Stato l’esecuzione di tale compito. Sant’Agostino non trattò direttamente la questione della pena di morte: di fatto negò espressamente la giustificazione etica della pena capitale e indirettamente la negò anche di diritto. Le ragioni da lui invocate sono essenzialmente teologiche: basate sulla condotta di Cristo, nello spirito del Discorso della Montagna (cfr. Mt 5,1-48), in vista del pieno superamento della legge anticotestamentaria.

La legittimazione teorica della pena di morte applicata dallo Stato si trova in una determinata tradizione ecclesiastica tardiva. Rispetto alla stessa fase post-costantiniana, inoltre, è possibile reperire un solo documento del Magistero che pare riferirsi all’ammissibilità della pena di morte, inserito in un contesto del tutto particolare: si tratta, infatti, di un’aggiunta del 1210 alla Professione di fede prescritta ai Valdesi, in una lettera inviata da papa Innocenzo III all’arcivescovo di Tarragona il 18 dicembre 1208. San Tommaso d’Aquino, nel momento in cui ammette, in casi estremi, la pena di morte a tutela del bene pubblico, deve presupporre, perché un uomo possa essere giustiziato, la decadenza di quest’ultimo dall’ordine razionale e dalla stessa natura umana ( Summa Theologiae, II-IIae, q. 64, a. 2, ad 3). Ove dunque venga meno, come oggi deve ritenersi acquisito, la possibilità di immaginare un decadimento della persona umana dalla sua dignità ontologica, qualsiasi cosa commetta, svanisce la possibilità stessa della condizione posta da Tommaso per l’applicazione della pena capitale. In un certo senso, pertanto, la posizione di Tommaso porta in sé la chiave del suo superamento.

La pena di morte è stata talvolta inflitta agli eretici e agli scismatici. A testimonianza della assoluta difformità dal Vangelo di questa pratica orrenda valgono almeno due esempi. Il più antico risale al 384, durante il Sinodo di Bordeaux, quando venne processato per stregoneria l’eretico Priscilliano, in base ai capi d’imputazione forniti da alcuni vescovi. San Martino di Tours e Sant’Ambrogio si opposero con forza all’imperatore Magno Massimo, per evitare la pena di morte che, invece, gli fu inflitta per decapitazione l’anno successivo insieme a sei compagni. Il caso di santa Giovanna d’Arco, processata dai teologi della Sorbona di Parigi e condannata al rogo (1431), ebbe come conclusione la sua riabilitazione (1455), a riprova dell’errore in cui gli esponenti ecclesiastici del tempo erano caduti. Merita ricordare quanto papa Benedetto XVI affermava nell’udienza generale del 26 gennaio 2011: «È l’incontro drammatico tra questa Santa e i suoi giudici, che sono ecclesiastici. Da costoro Giovanna viene accusata e giudicata, fino a essere condannata come eretica e mandata alla morte terribile del rogo. [...] questi giudici sono teologi ai quali mancano la carità e l’umiltà di vedere in questa giovane l’azione di Dio. [...] Così, i giudici di Giovanna sono radicalmente incapaci di comprenderla, di vedere la bellezza della sua anima: non sapevano di condannare una Santa». Anche ai nostri giorni, in diverse parti del mondo, viene perpetrato il dramma della pena di morte per motivi religiosi e di fede. Nei confronti di questa pratica deprecabile, la Chiesa sente ancor più forte il dovere di esprimere la propria ferma condanna. Dopo il Concilio di Trento – nel cui Catechismo (n.328) si esprimeva una tendenza minoritaria – si è accresciuta la stima per la dignità di ogni persona e si sono rafforzati i sistemi di difesa con carceri di sicurezza. Questa nuova consapevolezza ha dato modo alla Chiesa di perfezionare il proprio insegnamento. Oggi, finalmente, grazie agli interventi degli ultimi pontefici e in particolare di papa Francesco, si è giunti a una affermazione chiara, alla luce del Vangelo, dell’inammissibilità della pena capitale. Forse non sarebbe inopportuno, mentre se ne formula la ferma condanna, domandare perdono per alcuni gravi errori commessi da parte dei membri della Chiesa lungo la storia – seguendo l’esempio di san Giovanni Paolo II in occasione del Grande Giubileo dell’anno 2000.

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