La rivoluzione del Bes (Benessere equo e sostenibile) partita qualche anno fa dall’Istat ha collocato il nostro Paese all’avanguardia mondiale nella definizione di indicatori di sviluppo multidimensionali che consentissero di andare oltre la "dittatura" della misura unica del Pil, il Prodotto interno lordo. Quella rivoluzione rischia oggi di compiere passi indietro a causa della chiusura del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (partner dell’Istat nel progetto e luogo di aggregazione dei punti di vista della società civile sul contenuto del Bes) e di una presunta tiepidezza dello stesso Istat sul futuro del progetto e sulle misure qualitative del benessere. La nascita del Bes non è stato un semplice arricchimento statistico (di fatto quasi tutti gli indicatori erano già presenti e rilevati dall’Istituto nazionale di statistica), quanto soprattutto un evento politico e culturale. È innanzitutto il frutto di un processo democratico e partecipato nel quale sono stati i cittadini e i loro rappresentanti a segnalare le dimensioni di benessere più importanti per la loro vita e i loro territori. Il Bes sta a ricordarci che dobbiamo superare i riduzionismi che limitano la nostra visuale e fare un passo avanti nella metodologia di valutazione d’impatto di iniziative e progetti, evitando di ragionare a compartimenti stagni. Per fare solo un esempio, oggi molto spesso scegliamo un’opzione di politica economica perché aumenta la crescita senza preoccuparci delle conseguenze sulle altre dimensioni, in base al principio: "Delle conseguenze sulla salute se ne occupino altri, noi ci occupiamo di economia e d’impresa". Usando quest’approccio con i paraocchi anche il dramma della Terra dei fuochi potrebbe rappresentare una modalità efficiente di smaltimento degli scarti della produzione, perché probabilmente il meno costoso e neppure del tutto illegale fino a quando qualche tempo fa, a costo di battaglie e sacrifici, è stata approvata la legge sui reati ambientali. Allo stesso modo gli accordi di libero scambio commerciale sono buoni se riducono i costi e aumentano commerci e Pil, a prescindere degli effetti su occupazione, qualità del lavoro e salute. Adottare un approccio di valutazione d’impatto multidimensionale e integrato vuol dire passare dall’età della pietra a quella del ferro. Non importa se le dimensioni aggiunte non sono aggregabili e sintetizzabili, e quindi se non si possa avere una misura unica, sintetica, del benessere. In ogni ambito della nostra vita quotidiana tutti coloro che hanno sale in zucca prendono decisioni sulla base di molteplici dimensioni quando per esempio acquistano una casa o scelgono un’automobile. E non guardano certo solo al prezzo della prima e alla velocità della seconda. Ci accontentiamo anche del cruscotto con gli indicatori separati, senza una misura media che pretenda di sintetizzare il tutto, ma non lasciateci in automobile solo col tachimetro.Di grande rilievo, da questo punto di vista, è il percorso che si sta svolgendo in Parlamento, dove una proposta di legge sostenuta da tutte le forze politiche chiede di valutare le nuove iniziative di legge usando gli indicatori del Bes. Bisogna quindi proseguire nella strada intrapresa o torneremo al mondo in bianco e nero dove sono abilissimi nel nasconderci che dietro l’euro in meno nel carrello della spesa o dietro l’euro in più di Pil nelle nostre statistiche si possono celare giganteschi passi indietro in termini di salute, contrasto alle ludopatie, qualità della vita di relazione, dei centri urbani, della bellezza del paesaggio che abbiamo di fronte e del nostro lavoro. Il conflitto tra queste dimensioni non è un destino ineluttabile. Esistono sentieri di sviluppo e di creazione di valore sostenibile lungo i quali è possibile conciliare sviluppo economico con progressi sensibili di qualità della vita. L’Italia è oggi all’avanguardia nella valutazione di questi aspetti e senza il Bes sarebbe molto più difficile creare consenso per muovere in queste direzioni.