La diffusione massiccia di droghe, alcol, psicofarmaci e gioco d’azzardo tra i giovanissimi desta sempre più preoccupazione, in particolare di fronte agli scioccanti fatti di cronaca degli ultimi giorni. L’incremento di questi fenomeni deve interrogarci profondamente, soprattutto come educatori. Non basta infatti reprimere: sarebbe come cercare di curare una malattia con dei palliativi che ne contrastino i sintomi, senza cercare le cause della malattia stessa. I fatti a cui assistiamo, i dati sconvolgenti, non possono essere che il sintomo di una società nella quale prendono piede modelli sui quali occorrerebbe una seria riflessione. Provo a sintetizzarli in tre parole.
La prima è egoismo. Qualche anno fa una nota pubblicità utilizzava lo slogan “tutto intorno a te”. Il rischio è che questo slogan diventi uno stile di vita. Un bambino che cresce abituato a veder soddisfatto ogni suo capriccio, incapace di fare i conti con dei sani no, circondato da adulti che scambiano il voler bene col concedere tutto, rischia di abituarsi a prendere ciò che vuole immediatamente, a non tenere conto dei desideri altrui e a trovarsi con un vuoto da riempire, magari con qualcosa di dannoso.
La seconda parola è prestazione. La prestazione, in ogni ambito sociale (compresa, purtroppo, la scuola), è un mito assoluto. Bisogna competere, primeggiare. Se competiamo, si dice, diventiamo tutti migliori. Ma questo mito della prestazione rischia di portarci a vedere gli altri come avversari da superare, da schiacciare. Non solo: rischia anche di farci sentire fragili, deboli, sconfitti, e per questo più esposti a forme di fuga distruttive. L’alcol e la droga esaltano e rilassano, cancellano quell’insicurezza patologica che purtroppo della competizione spietata spesso è figlia.
La terza parola è cinismo. I giovani hanno fame di futuro, ma nella precarietà del contesto in cui ci troviamo spesso faticano a vederlo. Anzi, spesso sentono da noi adulti parole ciniche, spietate: una grigia rassegnazione spacciata per saggezza e per necessità di non illudersi, di stare coi piedi per terra. Senza grandi slanci però non si cresce e la tentazione di fuggire altrove può portare a rifugiarsi in altri mondi, quelli delle dipendenze: realtà parallele che offrono adrenalina e benessere almeno per un po’.
In questo contesto, il compito a cui è chiamata la scuola è decisivo. Per contrastare i tre atteggiamenti descritti sopra, noi docenti, alleati con le famiglie e con le altre istituzioni educative, potremmo proporne altri tre, ogni giorno, trasversalmente, ciascuno partendo dalla propria disciplina. Provo anche qui a usare tre parole chiave.
La prima è relazione, antidoto all’egoismo. Da prof di italiano, credo che l’intera letteratura possa essere una palestra di empatia. I libri sono un viaggio nel cuore di altre persone e in altri mondi: per questo i classici, ma anche i contemporanei, possono aiutare a comprendere gli altri a fondo, a mettersi nei panni di persone diverse, a rispettare ogni persona, nella sua intangibile dignità. La letteratura regala una ricchezza di parole: chi conosce tante parole è in grado di comunicare ciò che ha dentro e di comprendere ciò che hanno nel cuore gli altri. Una ricchezza di vocabolario, paradossalmente, previene la violenza, che inizia dove il linguaggio muore.
La seconda parola è dono, antidoto alla prestazione spietata. La scuola può insegnare che la felicità passa dal giocare in squadra, dal lasciare un segno positivo sulle vite di chi incontriamo, dal regalare qualcosa di bello agli altri, non dal superarli e dal lasciarli indietro. La felicità non è dominio, è bene regalato gratis, che proprio perché gratuito lievita, si espande, unisce in un abbraccio.
La terza parola è desiderio, antidoto al cinismo. Desiderio è un vocabolo bellissimo, che richiama le stelle, la capacità di alzare lo sguardo. Sono i sogni a dare forma alla vita, non l’accontentarsi. Sognare di cambiare il mondo è la base per arrivare a incidere nel proprio piccolo sulla realtà. I grandi letterati, filosofi, scienziati della storia spesso sono stati dei sognatori. Un sogno autentico è diverso dall’illusione: se l’illusione è fuga dal reale, il sogno si radica nel reale e sa vederne le potenzialità migliori. Le dipendenze illudono, i sogni sono la strada per ritrovarsi.
Di fronte ai recenti fatti di cronaca possiamo dunque lamentarci, lanciare filippiche, fermarci allo choc. Oppure possiamo soffrire: soffrire come è necessario fare, guardando in faccia il male e attraversandolo, perché i solchi della sofferenza diventino luoghi dove il futuro germoglia. Perché il dolore diventi forza, azione, desiderio di accettare la sfida. “A te convien tenere altro viaggio”, dice Virgilio a Dante, quando gli va incontro nella selva oscura. Non ci sono scorciatoie: per uscire dalla crisi Dante dovrà immergersi fino al fondo dell’Inferno, prendere coscienza del dolore, per poi, con fatica, salire a rivedere le stelle. È l’augurio che faccio a tutti noi prof, genitori ed educatori: ricordare che le stelle sono lì ad aspettarci e mettercela tutta per raggiungerle insieme.