Un cristiano simpatico. Questo era, è don Giussani (della cui causa di beatificazione ieri sera si è avviato l’iter). L’ho frequentato molto e ho collaborato con lui. Una fortuna, dagli anni dell’Università fino alla sua morte. E ho discusso con lui di tutto. Di amore e di morte, di gioia e di cultura. Un uomo che guarda con simpatia la vita, le sue strane glorie, e le sue immense ferite. E pure le nostre – di tutti – immense debolezze. Uno che porta le guarigioni di Gesù verso le nostre lebbrose, storpiate, affamate vite. E uno che sa stimare il meglio in tutti.
Un cristiano amico, un tipo eccezionale. Per la sua intensità di sguardo, di passione, di apertura. La sua eccezionalità ha avuto come frutto nella vita di tantissimi una cosa che sembra impossibile: la riscoperta continua della propria umanità. La cosa occultata, sfigurata, negata in questo duro posto che è il mondo. Don Giussani per me è stata una presenza misteriosa e forte. Un uomo dotato di grande genio, ma semplice come un bambino davanti all’essere e alle sfumature della esistenza. Lo ricordo tante volte a tavola o durante un incontro sorprenderci con uno scarto del pensiero e dello sguardo verso qualcosa di essenziale che non avevamo colto. E ricordo la potenza del suo parlare di Gesù. Un parlare poetico, gli dissi una volta, e non tanto perché lui era un amante della letteratura. Era poetico cioè 'vivo' il suo parlare a migliaia di persone – in grandi ritrovi o nel suo studiolo o in auto – perché parlava di Gesù non come quelli che te "lo spiegano". E che ti annoiano e tengono lontani come se stessero spiegando il manuale dell’uomo perfetto. Ne parlava come fanno i poeti di un cielo che li colpisce, di un amore che li scuote, di una esperienza che continuano a mettere a fuoco, a conoscere, mentre ne parlano. È che don Giussani parlava di Gesù guardando la «dulcis presentia». Era lui a essere colpito dall’avvenimento di Gesù. Ci disse: non potevo recitare giaculatorie vuote, senza ragione.
Il cristianesimo in lui non era mai un "argomento". Ma fuoco, ragione e letizia. Era sobbalzare per Dio presente. E come mi parlava con intensità di Gesù così parlava delle montagne, delle cose, del vino, dell’amore e del nulla. Dio gli interessava perché gli interessava la vita. Ricordo un segno della sua umanità tutta protesa al segreto del reale: l’intensità di ascolto, la stessa per una sinfonia di Beethoven o per le parole confuse di un ragazzetto. Un combattente, non mollava di fronte alle difficoltà e allo scandalo.
Scommetteva sulle persone, lasciando che si avvicinassero a lui noi uomini di ogni genere. Come Gesù nel Vangelo. Quanti – come me – non si direbbero cristiani se non lo avessero incontrato. La sua misteriosa e intima tensione alla santità non era separazione dagli altri. L’ho visto amico paziente di malati di mente e capitani d’impresa, Papi, uomini di successo o dimenticati. L’ho visto avere attenzioni di delicatezza estrema. A una signora molto anziana, che con occhi sorridenti lo rivedeva dopo tanto tempo, disse con un gesto della mano al viso: «Che freschezza». Gli piacevano gli 'irregolari' non per banale esotismo. Ammirava la forza irregolare che costruisce, non che distrugge. Lui stesso si sentiva un irregolare. Fu considerato tale, e lo sarà ancora. Non l’ho mai visto in atteggiamenti o strategie clericali. La sua opera è stata suscitare e educare persone all’avventura cristiana. Non voleva un gruppo, ma un movimento nelle persone. Mi ha comunicato una vita intensa, veramente esagerata, irriducibile alla misura delle convenienze, delle banalità. Che ammirando il volto di Cristo nella testimonianza della Chiesa tocca la vertigine e la consistenza dell’essere. Mi ha insegnato a dire sì alla mia strana vita, acconsentendo al Mistero.