Gentile direttore,
mi unisco all’indignazione di tanti che le hanno già scritto e alla riflessione sua e del suo giornale, per ribadire che c’è una legge superiore della quale le leggi umane devono tenere conto, se vogliamo continuare a essere e chiamarci "umani". Una legge che la Veritatis splendor di Giovanni Paolo II definisce «legge naturale... riflesso della sapienza creatrice di Dio... scintilla animae che brilla nel cuore di ogni uomo» (Vs, n. 59). Una legge che già la cultura classica greco-romana chiamava divina. Antigone, nella omonima tragedia di Sofocle (V sec. a.C.), diceva al tiranno signore di Tebe Creonte, che aveva vietato la sepoltura del fratello con un decreto, a cui lei aveva disobbedito, ed era perciò stata tratta in arresto: «Non pensavo che avessero tanta forza i tuoi decreti, che le leggi non scritte e incrollabili degli dèi tu, che pure sei un mortale, potessi violare» (Ant., 453-455). Lo afferma anche il Socrate dell’Apologia platonica ai giudici che lo stanno condannando per aver cercato e insegnato la verità: «Obbedirò al dio piuttosto che a voi» (Apol., 28e). Lo affermano Pietro e Giovanni a chi vuole impedire loro di annunciare il Vangelo: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29). Quando si dice che la comandante della "Sea Watch 3", la signora Carola Rackete, ha violato la legge, deve essere chiaro che ha violato quella che un nostro ministro ha proposto e che la sua maggioranza parlamentare ha approvato, non quella da sempre scritta da Dio nel cuore degli uomini. Assicuro la preghiera per la signora Carola, il suo equipaggio, gli immigrati sbarcati a Lampedusa, gli uomini della Guardia di Finanza, e anche per i nostri politici; papa Francesco ci invita: «I cristiani accompagnino con la preghiera i governanti, anche se sbagliano» (commentando 1 Tm 2, 1-8, Santa Marta, 18.9.2017). Grazie dell’attenzione e buon lavoro.
Giuseppe Micunco, Bari
Caro direttore,
mi ha molto colpito il suo editoriale di domenica 30 giugno 2019, con la sua forte denuncia del tentativo di presentare il soccorso come reato – e quindi la responsabilità per altri come disattenzione nei confronti dei "nostri", la cura come debolezza o ingenuità buonista. Non i diritti umani, ma solo il mio (il nostro) diritto viene affermato con quell’impostazione e quelle parole; non la custodia di ciò che è comune, ma quel relativismo pratico che pone solo me stesso o la mia parte al centro di tutto. È un brutto crinale: stiamo sostituendo quel paradigma di umanità che sgorga dalla parabola del Samaritano con una narrazione che mette al centro la forza esibita contro l’altro (e ancor più contro l’altra, se donna). È come se certa brutalità da fiction, come nel "Trono di Spade", assumesse il ruolo del Vangelo nella matrice culturale del nostro Paese. Troppe le parole e le azioni viste in questi giorni che vanno in tale direzione; essenziale allora discernere lo spirito che si cela dietro di esse. Essenziale in particolare ricordare che la cura per il fragile non è elemento accessorio per la vita e la narrazione cristiana, ma sta al cuore di essa. Non a caso i Padri hanno letto la parabola del Samaritano in chiave cristologica: la cura è anche un modo di comprendere la vicenda di Colui che si fa uomo e paga di persona per risanare un’umanità malata. Degradare a reato comportamento di chi segue tale via e definirlo "pirata" è una barbarie, ma anche una vera bestemmia contro lo Spirito, che nulla ha a che fare con il senso dei simboli cristiani. La ringrazio della sua attenzione, un cordiale saluto
Simone Morandini, Fondazione Lanza
Caro direttore,
il problema dei "migranti" è enorme e non riguarda solo l’Italia. Restando al nostro Paese, mi sembra che, da tutte le parti, venga affrontato soprattutto dal punto di vista della propaganda e della ricerca del consenso, e questo mi fa pensare, vista la vastità del problema, che siamo molto distanti a iniziare a trovare risposte. Anche nella percezione del problema mi sembra che ci concentriamo soprattutto su quelli che arrivano tramite le navi di Ong, piuttosto di quelli che arrivano in altri modi, soprattutto via terra. Le chiedo quindi se c’è una modalità per risolvere almeno questo piccolissimo aspetto del problema. Considerato che ciò che succede in una nave, quando questa si trova in acque internazionali, è regolato dalle leggi e dalle norme del Paese di cui batte bandiera la nave, è possibile applicare il trattato di Dublino considerando, come "primo" paese di accoglienza dei migranti "salvati", la nazione di appartenenza della nave che li raccoglie? Sono convinto che. con questa applicazione del trattato di Dublino, le Ong seriamente motivate sarebbero comunque presenti davanti alle coste africane, che l’Italia aprirebbe i porti sicura poi di poter trasferire questi migranti nei Paesi di destinazione, e che i vari Paesi potrebbero aver la possibilità di iniziare a discutere seriamente del problema.
Vincenzo Cominato, Rovigo
Gentile direttore,
le sono riconoscente e la stimo per l’informazione e le riflessioni che promuove. Cefa Onlus, Comitato europeo per la formazione e l’agricoltura, è una Ong che si preoccupa da oltre 45 anni di quanto sta accadendo nel Mediterraneo e, avendo ben presente anche il punto di vista delle persone e dei Paesi africani, non può rassegnarsi a quando sta accadendo. Fra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo deve prevalere, per il bene e la prosperità di tutti, una logica di cooperazione piuttosto che di isolamento. L’Italia ha un ruolo guida nell’area perché con l’articolo 10 della Costituzione è impegnata a conformare il suo operato alle norme del diritto internazionale e rappresenta, per collocazione geografica, il primo Paese garante dell’effettivo esercizio delle libertà democratiche per chi fugge dal continente africano. Per adempiere ai compiti costituzionali, ricordando che «salvare vite è la stella polare», l’istituzione di corridoi umanitari appare una strada maestra per assicurare accesso ai diritti umani e consentire l’accoglienza a chi cerca rifugio in Italia e in Europa. I corridoi umanitari devono rispondere a emergenze umanitarie ed essere affiancati da azioni di carattere politico affinché le condizioni emergenziali vengano meno (per esempio, chiudere i centri di detenzione in Libia, assicurando garanzie e soluzioni per le persone recluse e per i libici stessi). Allo stesso tempo andrebbero garantiti, come già previsto dal Testo unico sull’immigrazione, flussi migratori quantitativamente sensati, dai Paesi di maggior provenienza dei migranti. La logica dei flussi oltre a garantire migrazioni sicure e regolari andrebbe a favorire una logica circolare includendo possibilità di ritorno nei Paesi di origine. Il Cefa realizza progetti di ritorno, in collaborazione con la Cooperazione italiana, francese e tedesca, verso Marocco e Tunisia. Progetti che vanno a sostenere persone e famiglie in base a opportunità concrete di reinserimento e non semplicemente di "rimpatriare migranti", cosa che oggi di fatto l’Italia sta cercando di fare con scarsi risultati. I corridoi umanitari e i flussi potrebbero consentire di uscire dalle dinamiche emergenziali e soprattutto andrebbero a riconoscere, in base alle storie e ai progetti delle persone e alle condizioni dei Paesi di provenienza. Questi devono essere coinvolti e responsabilizzati e offrire opportunità e garanzie di rispetto dei diritti sia per chi parte che per chi accoglie. La nostra Ong opera da oltre 15 anni nel Maghreb e le speranze di tanti giovani passano per una migrazione regolare e sicura che è necessaria all’Europa e dovuta a chi, da millenni, è consapevole che attraverso il Mediterraneo è passata e passa la storia dell’Occidente.
Raoul Mosconi, presidente Cefa
Quando leggo le lettere dei nostri lettori, mi riconcilio almeno un po’ con i giorni tormentati e tesi che dobbiamo attraversare e trovo ragioni che sostengono la speranza alla quale, da cristiani, non possiamo rinunciare e da cittadini innamorati del nostro Paese non vogliamo fare a meno. Mi rendo conto, infatti, che il nostro tempo sta mettendo in piazza (una piazza, in questo senso, anche e soprattutto digitale e mediatica) tanto del peggio di cui noi italiani ed europei siamo pur capaci, ma vedo e registro assieme ai miei colleghi che c’è, come sempre, anche moltissimo di buono. E continua a emergere. Emerge in opere di giustizia e nella forma di pensieri puliti e saldi come quelli a cui, qui, sto dando breve e grato riscontro. Sono azioni e pensieri senza acrimonia e senza paura, percorsi anche da comprensibili timori e magari con non irrilevanti sfumature diverse, ma... pensieri, grazie a Dio! Pensieri, non aspri slogan. Pensieri, liberi dall’ebrezza dell’insulto e della maledizione che eccita troppi forsennati tribuni di professione e d’occasione. Pensieri di chi ha imparato che per ogni problema c’è una soluzione, anche se non ci piace del tutto e che comunque ci sono punti di riferimento sicuri e alti che aiutano a trovarla. Pensieri di chi sa – come non mi stanco di ripetere – che gli uomini e le donne non sono mai “il” problema, ma sono sempre parte essenziale della risposta che cerchiamo. Anche nel caso delle migrazioni umane, che sono parte ineliminabile della vita del mondo e della storia dell’umanità. E che vanno regolate e riumanizzate, non esorcizzate. Chiudendo le strade rischiose e sgominando i traffici sporchi, senza insultare le persone per bene che si preoccupano di impedire la morte di chi fugge dalla Libia continuando il suo cammino di emigrante. È possibile, basta volerlo. Basta ricominciare in modo giusto...