Caro direttore,
il disastroso incendio di Notre-Dame ha sollevato, come spesso accade, qualche commento a margine e qualche polemica che meritano una riflessione. Ci si sorprende, chi con un senso di conforto e chi con rammarico, della grande commozione suscitata dallo spettacolo di un monumento avvolto dalle fiamme. Alcuni trovano eccessiva o persino incomprensibile la reazione emotiva espressa da tantissimi: lacrime e preghiere, affermano, dovrebbero essere riservate alle vittime delle guerre e delle ingiustizie che affliggono tante parti del mondo.
Si tratta di una grande questione che non si dovrebbe liquidare con poche battute, in un senso e nell’altro. Di certo sarebbe superficiale affermare che lo struggimento provocato dalla perdita di un’opera d’arte sia da contrapporre al dolore suscitato da una vita che si spegne per mano di un omicida, di una catastrofe, di un conflitto.
Le immagini della Cattedrale avvolta dalle fiamme hanno colpito il mondo intero: per alcuni è apparsa come una scena proiettata dal passato remoto, da un tempo in cui le chiese crollavano per incuria, accidenti o per violenza (tralascio il fatto che, in tema di incuria, assistiamo ancora oggi a tragici eventi). Non era soltanto la fragilità delle coperture in legno a condannare quelle mirabili costruzioni, ma spesso il desiderio di colpire la comunità che in quell’edificio si identificava, che con ogni mezzo aveva contribuito a portarlo alla luce.
La Cattedrale era il cuore della città, un libro di pietra che ne raccontava la storia, i sogni, le paure, la meraviglia. Georges Duby ha ben spiegato, in un libro molto famoso (L’Europa delle Cattedrali), che la cattedrale è espressione di un formidabile intreccio di valori, competenze e speranze: edifici maestosi, ai limiti delle possibilità tecniche di cui si disponeva nel Medioevo, le cattedrali coniugano fede e senso civico. Si impiegavano decenni, secoli, per completarle e abbellirle, investendo tutte le risorse disponibili, persino chiamando artisti e artigiani forestieri, procacciando le più preziose reliquie, oggetti rari e meraviglie, vestendo le facciate di un mantello di statue e di rilievi, racconti in immagini che ancora oggi riescono a parlare. Se esiste una espressione forte e inattaccabile delle origini della cultura europea, del nostro essere cittadini, questa è la cattedrale.
Ma c’è di più. I canti e le lacrime offerti di fronte allo spettacolo drammatico di Notre-Dame esprimono una sensibilità che va al di là del valore e del significato storico e culturale di un particolare monumento. Chi ha partecipato a questo dolore, in modo più o meno intenso, condivide il valore universale di un patrimonio che non conosce confini e barriere culturali. Abbiamo partecipato con la stessa emozione al dramma dei Buddha di Bamiyan, distrutti in Afghanistan a colpi di cannone, o di fronte alla devastazione di Palmira, in Siria.
Soffrire per la perdita di un monumento, di un’opera d’arte, significa manifestare consapevolezza verso la concreta testimonianza delle civiltà di cui siamo eredi e custodi: un patrimonio di bellezza (e si badi al significato di una parola che va ben oltre la categoria estetica), di sacrifici, di sogni che è la vera radice di una identità che non soltanto ci appartiene ma che dà senso al nostro esistere, orienta il percorso degli uomini e delle donne verso un futuro incerto.
La cattedrale che brucia è l’orribile spettacolo della lacerazione del legame con il nostro passato, l’incubo insopportabile che una inguaribile amnesia possa avvelenare il presente. Se la politica si affretta, ancora prima degli intellettuali, a rassicurare il popolo di una pronta ricostruzione, vi è un motivo antico: la cattedrale incarna e conferma, con il suo esistere e la sua fragilità, l’esistenza delle radici, di un passato che in fondo è lo specchio del nostro sentire comune.
Mi piacerebbe aggiungere che i monumenti, le cattedrali in particolare, sanno essere "cose vive": si può piangere di fronte all’incanto della loro bellezza, come a me è capitato all’incontro con la cattedrale di Chartres. Ma non sorprende che, nella maggior parte dei casi, le lacrime affiorino solo nel momento della perdita di quella bellezza, proprio come accade con le persone più care.
Dobbiamo sperare che l’umanità non perda mai la capacità di commuoversi di fronte alle rovine di un monumento che crolla. È quella commozione che fa di noi uomini, donne, cittadini migliori, uniti in preghiera perché le fiamme non consumino la memoria del mondo.
Irene Baldriga è presidente dell’Associazione nazionale Insegnanti di Storia dell’Arte (Anisa)