I missili americani contro le basi Houthi nella notte yemenita hanno proiettato ulteriori sinistri bagliori sulla crisi mediorientale. L’iniziativa della coalizione occidentale a guida statunitense e britannica è mirata a far cessare gli attacchi dei ribelli filo-iraniani alle navi in transito nel Mar Rosso, vie d’acqua fondamentale per gli approvvigionamenti di merci e petrolio verso Nord. Alcune grandi aziende in Europa stanno già programmando interruzioni della produzione per mancanza di componenti.
Quando gli interessi economici e politici si saldano, è più facile trovare l’intesa per agire, soprattutto se il nemico è agguerrito ma non così pericoloso nelle sue possibili rappresaglie. Teheran, infatti, non sembra intenzionata a vendicare il suo braccio armato nell’area. Quello che l’escalation di queste ore segnala è la sconfortante complessità del conflitto innescato dall’attacco di Hamas del 7 ottobre. A Gaza si continua a combattere, nei mari e nei cieli a migliaia di chilometri di distanza si spara e si risponde, all’Aja si valuta se la rappresaglia di Israele configuri la fattispecie legale del genocidio, mentre nel mondo crescono gli episodi di antisemitismo e salgono le tensioni nelle opinioni pubbliche musulmane, con un oscuramento mediatico e pratico della guerra in Ucraina e un imbaldanzirsi delle autocrazie, Corea del Nord fra tutte, nell’imminenza del delicato voto di Taiwan. A quasi cento giorni dal pogrom anti-ebraico condotto dai fondamentalisti, le onde concentriche delle sue conseguenze continuano a diffondersi senza che si veda un modo efficace per fermarle.
Non contribuisce a trovare una via d’uscita la strategia adottata dal governo di Benjamin Netanyahu, sordo ai richiami dell’alleato americano per una moderazione delle operazioni militari nella Striscia, e incurante delle implicazioni di lungo periodo del massacro di civili. A Gaza ha trovato la morte finora l’1% della popolazione, 23mila persone di cui 10mila bambini – come se in Italia fosse scomparsa l’intera città di Palermo.
Impossibile non fare i conti con questo dato, cui si aggiungono le distruzioni materiali ancora incalcolabili, sebbene l’azione bellica avviata per annientare la minaccia militare di Hamas sia stata formalmente non indiscriminata.
L’esercito israeliano ha dato in moltissimi casi avviso ai civili dei bombardamenti imminenti. I miliziani hanno davvero nascosto armi e comandi in scuole, ospedali, moschee e altri edifici che dovrebbero avere massima protezione. I comandanti si sono certamente nascosti tra i profughi in fuga insieme agli ostaggi prelevati dai kibbutz. Ma fin dal primo giorno si è accettato da parte israeliana di avere un numero di vittime collaterali del tutto incompatibile con il rispetto del diritto internazionale.
Se è vero che nel Nord della Striscia la capacità offensiva di Hamas è stata disarticolata, un cambio di strategia potrebbe ora raffreddare la crisi umanitaria e geopolitica in atto. È difficile, tuttavia, ipotizzare come si possa ricostruire quel clima di pace in Terra Santa che il Papa non si stanca di invocare. Trump lancia espliciti segnali alla destra di Tel Aviv: vuole tornare alla Casa Bianca e da lì sosterrà la linea dura quali che siano gli effetti. Nel frattempo, il crescente dissenso verso l’autodifesa considerata eccessiva fa crescere il timore di un isolamento a livello internazionale e compatta Israele nel no a concessioni e cessate il fuoco, nella convinzione che la tattica della “terra bruciata” sia la più efficace per proteggere la propria esistenza. Sia dal mondo arabo, a parole vicino ai palestinesi, sia dall’Europa – divisa anche ieri sui raid anti-Houthi – mancano sponde efficaci a un percorso credibile che dalle armi porti a un assetto stabile e sicuro per tutti i popoli della regione.
Oggi, ricostruire materialmente Gaza può essere molto meno difficile e costoso che trovare una soluzione per il suo assetto amministrativo e di sicurezza. La “questione palestinese”, per anni dimenticata, è tornata a essere l’innesco – per quanto a volte pretestuoso – di un incendio sempre più vasto.
Domare le fiamme non basta quando non si ha l’intelligenza diplomatica sufficiente per coinvolgere in un processo realistico di pacificazione ogni parte coinvolta nel conflitto. Impossibile negare la responsabilità di Hamas, che spara fino all’ultimo razzo verso Tel Aviv mentre la sua gente rischia di morire di fame e che va pertanto escluso dal tavolo del negoziato, come chiunque neghi la legittimità dell’interlocutore. Anche Israele, incautamente portato davanti alla Corte di Giustizia Onu, è chiamato però a fare i conti con ciò che il suo rappresentante all’Aja, Aharon Barak, ha detto più volte: in quanto democrazia, deve “combattere con una mano legata”. Quasi inconcepibile in questo momento, eppure l’unico modo che possiamo riconoscere come condivisibile.