Caro direttore,
sul sito web della International Society for Gender Medicine, la medicina di genere è definita come un «modo nuovo di guardare alle differenze fisiologiche e patofisiologiche tra uomini e donne». Questa branca della medicina, sviluppatasi solo da pochi decenni nel mondo anglosassone, studia cioè il modo in cui le malattie differiscono tra uomini e donne quanto a prevenzione, segni clinici, approccio terapeutico, prognosi, impatto psicologico e sociale. Viene così superata un’impostazione della medicina durata per secoli, nella quale l’interesse per la salute femminile era tradizionalmente limitato alla sola sfera riproduttiva, senza tener conto che, tanto per rimanere alla riproduzione, il ciclo mestruale, la gravidanza e la menopausa condizionano, in modo diverso nelle donne rispetto agli uomini, molteplici altre funzioni oltre che le espressioni di altre malattie e l’efficacia stessa delle terapie. Uomini e donne, infatti, benché soggetti alle stesse patologie, le presentano spesso con differenti sintomi, decorso, progressione e risposta ai farmaci.
È per questo che la medicina di genere consente, paradossalmente, di esercitare meglio la medicina non solo nelle donne, ma anche negli uomini. Per illustrarlo, basti qualche esempio limitatamente alla disciplina che personalmente esercito. Se l’ictus è più frequente nei maschi, la sindrome delle gambe senza riposo lo è nelle femmine. In alcuni tipi di epilessia e nell’emicrania, le crisi nelle donne possono verificarsi soprattutto attorno al ciclo mestruale, mentre la sclerosi multipla sovente migliora in gravidanza e la menopausa può favorire lo sviluppo di depressione. Correttamente, poi, si parla di medicina di genere per tener conto delle differenze tra uomini e donne che derivano, oltre che dalla biologia, anche dall’ambiente, dall’educazione e dalla cultura, soprattutto in ambito psicologico.
È positivo pertanto che la Camera dei Deputati, nell’esaminare in XII Commissione il disegno di legge sulle professioni sanitarie del ministro Beatrice Lorenzin, abbia introdotto un intero nuovo articolo riferito alla medicina di genere, approvando un emendamento targato Pd. Purtroppo, però, questa materia, di per sé totalmente condivisibile, sia stata sfruttata per introdurre surrettiziamente, anche in ambito medico, un argomento molto più discutibile e divisivo, quello del 'gender', inteso come variabilità e soggettività delle differenze sessuali. Il trabocchetto, in cui sono caduti in parecchi, è stato congegnato specificando per ben otto volte nel testo, che la medicina di genere e gli interventi per realizzarla nel sistema sanitario italiano si riferiscono alle differenze «di sesso e di genere». Grazie a questa reiterata e non innocente specificazione, il genere è diventato qualcosa di diverso dal sesso biologico, esattamente come vorrebbe la teoria gender. Due annotazioni per finire. La prima è che l’emendamento è stato approvato in Commissione con il parere favorevole del Governo.
La seconda è che esso prevede anche «la sensibilizzazione delle riviste scientifiche ai fini dell’accreditamento di pubblicazioni attente ai determinanti sesso e genere». In altre parole, nelle intenzioni dei firmatari, il Ministero della Salute dovrebbe esercitare pressioni sulle riviste scientifiche affinché nel processo di valutazione degli articoli a esse sottoposte, offrano un canale preferenziale per la pubblicazione di quelli attenti ai determinanti di genere (da leggersi, ovviamente, come 'gender'). Una mentalità, questa, molto poco scientifica e degna, più che di un Ministero della Salute di un Ministero della Propaganda o, come in un non fausto passato, di un Ministero della Cultura Popolare. Roba da MinCulPop insomma, che faremo di tutto perché possa essere corretta durante l’esame da parte dell’Aula.
*Deputato di Democrazia Solidale e presidente del Movimento per la Vita Italiano