Si chiama Jackie. Non ne vediamo il volto, e già questo è un indizio. Il pancione, invece, è inquadrato in primo piano. E poi quattro mani: le sue, femminili, e due maschili, strette intorno al grembo di lei. È davvero sorprendente, il manifesto presentato da Arcigay in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne di domenica scorsa. «Nessun controllo sul mio corpo. L’autodeterminazione delle donne non si tocca», è lo slogan. Dunque, affittando il proprio utero le donne compirebbero un esercizio di libertà. E chi obietta che questa non è libertà o ne mette in luce le contraddizioni e i pericoli, commetterebbe violenza contro le donne, tanto quanto i barbari che picchiano, pestano, violentano, uccidono.
Il ragionamento di Arcigay è da triplo salto mortale: «Essere madri è una libera scelta. Ma anche non esserlo, lo è», si legge ancora sul manifesto. Certo, accade di non diventare madri, di non volerlo o poterlo essere, ma dovrebbe essere chiaro a tutti che il bambino non è mai merce, né è “proprietà” di nessuno, nemmeno di chi lo partorisce.
Il manifesto di Arcigay rappresenta davvero un mondo rovesciato. Si rovesciano gli slogan del femminismo, perché autodeterminazione vuol dire qualcosa di ben diverso che essere vincolata da un contratto a mettere al mondo per conto di altri un essere umano titolare di diritti inviolabili soggettivi.
Si rovescia la realtà: per Arcigay non è l’affitto di un utero a rappresentare una violenza – contro le donne sotto contratto, nella maggior parte del mondo le più povere e disperate, contro il bambino che viene considerato un oggetto da strappare al più presto alla madre –, ma le buone ragioni di chi contrasta questa pratica. Infine, le braccia dei committenti – in questo caso una coppia omosessuale – non tradirebbero l’essenza di una donna, il suo legame più intimo con il bambino che porta in grembo, ma, anzi, sarebbero braccia che «accolgono, uniscono, generano amore... » (sic, nel comunicato stampa di lancio della campagna social).
Il manifesto è una stridente manipolazione della realtà dei fatti, dunque, che non poteva passare inosservata. Così Cristina Gramolini, segretaria nazionale di Arcilesbica, si è dichiarata «disgustata»: «Arcigay scomoda l’autodeterminazione delle donne per chiedere implicitamente il libero accesso al corpo femminile fecondo». Sintesi un po’ brutale, ma efficace.
Il manifesto pro-utero in affitto della principale associazione omosessuale italiana, così, si rivela un clamoroso autogol. Una donna senza volto – cosa conta, il viso, se l’unica cosa che serve è più in basso? –, un corpo a pezzi, due uomini che se ne appropriano... Il tutto proprio nel giorno in cui si auspicava la fine di ogni violenza sulle donne. Sarà per la prossima volta, si spera.