La macroeconomia giapponese è come il Paese delle Meraviglie di Alice, un mondo alla rovescia che però sembra funzionare. L’Abenomics ha perseguito la via dell’iper-espansione monetaria, senza preoccuparsi della crescita del debito pubblico acquistato dagli stessi giapponesi e Banca centrale nipponica, per finanziare investimenti pubblici. Nel suo discorso di fine anno il governatore Kuroda ha snocciolato dati positivi ricordando che da 50 mesi l’economia cresce (anche se a ritmi molto bassi), la disoccupazione è al 2,7%, il debito pubblico è a livelli stratosferici (248% del Pil) ma l’inflazione resta rasoterra allo 0,6%.
Se della microeconomia civile sappiamo ormai tutto il dibattito sulla macroeconomia civile è assolutamente aperto e il mondo alla rovescia giapponese è un’occasione per fare qualche riflessione in materia, utile per l’anno e il tempo politico nuovi che si stanno aprendo davanti a noi.
La microeconomia civile, supportata dal consenso degli studi di frontiera in materia, non ha ormai dubbi nell’affermare che generatività e bene comune possono essere perseguiti superando visioni riduzioniste di persona, impresa e valore. Passando dalla razionalità inferiore dell’homo oeconomicus, miopemente autointeressato e incapace di risolvere i dilemmi sociali a quella superiore dell’uomo cooperativo che produce capitale sociale e sa costruire squadre che generano superadditività (dove uno più uno fa tre). Dall’impresa massimizzatrice di profitto a quella responsabile e creatrice di valore condiviso che guarda all’impatto sociale oltre che al profitto. Dal Pil al benessere multidimensionale.
La macroeconomia civile dovrebbe essere quella che individua le combinazioni migliori di politica fiscale, monetaria e tasso di cambio per perseguire benessere multidimensionale, ma soprattutto dignità del lavoro e occupazione stabile. Se confrontiamo la via giapponese con la nostra gli approcci sono però completamente diversi, proprio come le opinioni degli esperti, assolutamente divisi su come raggiungere l’obiettivo. L’unico dato parzialmente acquisito è quello della convenienza dell’espansione monetaria, quel quantitative easing che ha salvato l’Europa – per il quale ci siamo battuti con l’appello lanciato su "Avvenire" e condiviso da centinaia e centinaia di economisti – e che oggi accomuna Giappone, Unione Europea e Stati Uniti (anche se negli ultimi due casi le Banche centrali hanno iniziato a togliere il piede dall’acceleratore). Sul fronte fiscale invece l’approccio europeo del Fiscal Compact è radicalmente opposto perché teso all’obiettivo della riduzione progressiva del rapporto debito/Pil. La disoccupazione media europea è significativamente più elevata, attorno all’8% (e fino al 18% se aggiungiamo scoraggiati e sotto-occupati), la divergenza tra i Paesi membri è un problema, e gli investimenti pubblici sono al di sotto del livello necessario per uno stimolo robusto all’economia. Gli Stati Uniti sono un po’ a metà strada tra noi e il Giappone. Perseguono l’obiettivo della crescita e della riduzione della disoccupazione, con un focus esplicito sul secondo obiettivo della Banca centrale (che ha operato con successo per contribuire a ridurla al 4%) e con un’imponente riduzione delle tasse voluta dalla Casa Bianca che, nei prossimi vent’anni, farà venir meno nelle casse pubbliche 1.500 miliardi di dollari. Il che, di fatto, significa che l’obiettivo del contenimento della crescita del debito pubblico non è così importante essendo assai improbabile che le entrate fiscali per la maggiore crescita economica attesa compensino la gigantesca perdita iniziale per il fisco.
Una "novità" che accomuna tutti e tre gli approcci è che l’inflazione non sembra essere più un problema nell’economia globale e che dunque è possibile pigiare a fondo il pedale dell’espansione monetaria se necessario in momenti di difficoltà.
La riflessione che emerge dai tre quadri è che in Europa è possibile fare molto di più sul fronte delle politiche fiscali e degli investimenti in infrastrutture senza necessariamente compromettere le finanze pubbliche. Guardando ad esempio a politiche ad alto moltiplicatore (come quelle legate al rilancio degli investimenti privati e alle agevolazioni per la ristrutturazione edilizia sostenibile) e a investimenti in infrastrutture realizzati attraverso la finanza a progetto e i nuovi approcci delle obbligazioni a impatto sociale e le partnership pubblico-privato.
Non aspettiamo che una nuova crisi scuota di nuovo le fragili fondamenta dell’edificio europeo. È questo il momento di agire per una macroeconomia civile che riduca le ragioni del malcontento di vasti strati sociali in Italia e in Paesi membri dell’Eurozona. La macroeconomia non ha la bacchetta magica per risolvere alcuni problemi strutturali sul tappeto e la qualità del lavoro latita in tutti i Paesi ad alto reddito. Ma sicuramente essa può fare di più per alzare quella buona marea che consentirebbe di togliere dalla secca e rimettere in acqua molte più barche.