A marzo saranno quattro anni dall’entrata in vigore del reato di omicidio stradale. Non aggravante, si badi, ma reato a sé stante, previsto dall’articolo 589-bis del Codice penale che punisce con il carcere da due a sette anni «chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale», pena che aumenta (da 8 a 12 anni) se il delitto è commesso «in stato di ebbrezza alcolica» o di alterazione indotta da droghe.
La serie impressionante di vite umane stroncate da investimenti automobilistici in queste ultime settimane mette in discussione non tanto l’efficacia della sanzione in sé, ma la filosofia di fondo: affidarsi al solo inasprimento delle pene per affrontare fenomeni sociali gravi e spaventosi. È un po’ il discorso che si fa in alcuni Stati degli Usa, dove si conta sulla pena di morte per arginare omicidi e stragi, ma poi la violenza continua a imporsi come diffuso 'stile di vita' e le armi automatiche si comprano nei supermercati. Per sua definizione, la repressione non previene.
Sì, si può contare sull’effetto deterrente, ma per funzionare deve restare in piedi almeno un po’ di stigma sociale, di riprovazione collettiva. Precedenti al fatto, s’intende, in quanto a tragedia avvenuta tutti sono pronti a indignarsi o a gridare contro chi era al volante, con i soliti eccessi barbari e, magari, senza ancora sapere come siano andate le cose. Il fatto è che siamo ormai come anestetizzati, abituati a certi comportamenti scellerati divenuti 'di massa'.
E non si tratta di alcune zone del Paese, come purtroppo la geografia tragica della cronaca sta a dimostrare. Si va dalla 'semplice' inciviltà alla follia potenzialmente omicida, dall’auto lasciata in doppia o tripla fila («ma solo per pochi minuti, ero nel negozio qui davanti...») al sorpasso con la doppia striscia continua, dal parcheggio negli spazi riservati ai disabili o sulle strisce pedonali alla circolazione contromano («ma erano pochi metri!»). Si potrebbe continuare, purtroppo: il messaggio sul cellulare (sempre «un attimo»), l’alcol («solo due bicchieri»), la droga (i fiumi di cocaina che inondano le nostre città hanno un sicuro impatto, di certo non positivo, sui comportamenti al volante e al manubrio). Soprattutto nei grandi centri urbani, si esce di casa consapevoli dei seri rischi che si corrono.
A Roma, per esempio, ci sorprendiamo spesso con la mano a mezz’aria in segno di ringraziamento all’automobilista che si ferma all’attraversamento pedonale, quasi fosse una cortesia che ci usa. E alla fine, paradossalmente e purtroppo, lo è: la regola sta diventando l’eccezione. Di fronte a una simile regressione, avvenuta gradualmente, la politica non ha saputo che rispondere come ha fatto con tante altre materie: con la scorciatoia facile facile, e perciò inefficace, delle 'pene più severe'. Se contassimo tutte le volte in cui le pene sono state inasprite, dovremmo concludere che il nostro è il Paese più virtuoso del mondo. Ma sappiamo ormai che si tratta soltanto di un’illusione.
La sanzione è necessaria, naturalmente. Ma accanto alla risposta penale, anzi prima, serve anche altro, molto altro. Non si cambiano le teste e i cuori delle persone per legge, è indispensabile uno sforzo collettivo, un cambiamento generale di mentalità, una nuova cultura della comunità. E considerando quanto abbiamo ormai eroso di quel patrimonio umano e civile che l’Italia era stata capace di ricostruire sulle macerie della dittatura e della seconda guerra mondia-le, si tratta di un’impresa titanica che dovrà necessariamente partire dal ruolo educativo della famiglia e dal lavoro fondamentale della scuola. Nel suo messaggio di Capodanno, il presidente della Repubblica ha chiesto a tutti di sviluppare «una cultura della responsabilità ». Almeno proviamoci.