Il Dio biblico che ha offerto l’alleanza (fondamentale anche nell’islam, nella riproposizione coranica che il Dio che si rivela è unico, vero e solo Dio) non è né può essere a tal punto “padrone del patto” stipulato con Abramo e poi Mosè (Lacan) da contraddirsi. Ciò accadrebbe nel momento in cui Colui che ha prescritto “Non uccidere”, dando a questo imperativo il valore di un assoluto (collegato al rispetto della sua immagine nell’essere umano) obbligasse a uccidere in nome suo. Non può farlo, perché contraddirebbe se stesso. Dio non può comandare a nessuno di uccidere, nemmeno in suo nome. Se non si arriva a stabilire questo, ogni deriva religiosa è possibile e il senso dell’Assoluto, che è Dio, è alla mercé di ogni forma di assolutismo (religioso, politico, idealistico). I casi contrari registrati nella Bibbia sono da esaminare in modo attento con differenziate e corrette ermeneutiche. Gli stermini ordinati in caso di guerra, l’episodio della figlia di Jefte ecc., sono casi eccezionali e comunque riconducibili a situazioni straordinarie, nelle quali l’interpretazione umana del volere di Dio come tale appare senz’altro problematica anche dal punto di vista biblico. Affiora consistente il problema: era quella la volontà di Dio o sono stati i suoi interlocutori a volerla intendere come tale? La Bibbia contiene episodi di espedienti e sotterfugi, ma anche omicidi e persino stragi, i cui artefici hanno riportato al volere di Dio, ma non è detto che ciò sia vero. Una conferma in tal senso viene anche da quanto in qualche documento più autorevole di questa opinione si trova espresso come “le pagine oscure della Bibbia”: «Nel contesto della relazione tra Antico e Nuovo Testamento, il Sinodo ha affrontato anche il tema delle pagine della Bibbia, che risultano oscure e difficili per la violenza e le immoralità in esse talvolta contenute. In relazione a ciò si deve tenere presente innanzitutto che
la rivelazione biblica è profondamente radicata nella storia. Il disegno di Dio vi si manifesta
progressivamente e si attua lentamente attraverso
tappe successive, malgrado la resistenza degli uomini. Dio sceglie un popolo e ne opera pazientemente l’educazione. La rivelazione si adatta al livello culturale e morale di epoche lontane e riferisce quindi fatti e usanze, ad esempio manovre fraudolente, interventi violenti, sterminio di popolazioni, senza denunciarne esplicitamente l’immoralità; il che si spiega dal contesto storico, ma può sorprendere il lettore moderno, soprattutto quando si dimenticano i tanti comportamenti “oscuri” che gli uomini hanno avuto sempre lungo i secoli, anche ai nostri giorni (…) Perciò esorto gli studiosi e i Pastori ad aiutare tutti i fedeli ad accostarsi anche a queste pagine mediante una lettura che faccia scoprire il loro significato alla luce del mistero di Cristo». (Benedetto XVI,
Verbum Domini, n.42) Insomma, non è Dio ad aver voluto la violenza, ma la determinazione di uomini “di Dio”, che si appellavano a Lui per una legittimazione ultima di atti evidentemente ripugnanti alla loro coscienza morale. L’obiezione più consistente può venire dal caso dell’ubbidienza di Abramo, pronto a sacrificare il figlio Isacco, ubbidienza ripresa e giustificata anche in altri passi della Bibbia (cf. Lettera agli Ebrei, 11,17-18 «Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto:
Mediante Isacco avrai una tua discendenza »). È scritto, ma alla luce di quanto detto sulle “pagine oscure” e del restante racconto biblico, non si deve dimenticare che l’obbedienza più grande e più vera di Abramo fu quella di salvare la vita del figlio, visto che la cultura ancestrale considerava doveroso il sacrificio di un figlio o di un innocente per garantire il favore divino verso grandi progetti umani alle quali si dava inizio (fondazioni di città, grandi viaggi, dichiarazioni di guerre, ecc.). Similmente, se la Bibbia sembra plaudire all’adempimento del voto di Jefte di uccidere la prima persona incontrata dopo la vittoria, che tragicamente risultò essere sua figlia (Libro dei Giudici, 11,32-36ss), è stato davvero questo il volere di Dio? Non si è trattato piuttosto di un adattamento “al livello culturale e morale di epoche lontane”, incluso quel livello culturale che riteneva il voto a Dio più sacro della stessa vita umana? La mentalità sacrificale applicata a Dio era ed è tuttora, anche in qualche circolo cattolico, anch’essa frutto di un livello culturale ancestrale. Questa riteneva e ritiene l’autorità suprema (il re, il capostipite, e a maggior ragione Dio) padrone della vita stessa. Nel caso di un Dio, arrivava e arriva al punto per cui, pur offrendo un patto, Egli resta superiore al patto stesso e, quindi, capace di legittimare anche ciò che comunemente può apparire come trasgressione e persino atto contro lo stesso patto. Possiamo chiederci: ma arrivava e arriva a ritenere Dio capace di legittimare anche ciò che viene chiamato “nefandezza” o “abominio”? Questo è il punto. Ci sono nefandezze e nefandezze. La Bibbia chiama tale, e il Corano ne riprende il concetto, sia la trasgressione dei comandamenti più gravi, ma anche ciò che va contro l’inviolabilità del “nome” e dunque della realtà di Dio, della sua unicità e della sua santità. Ma in quest’ultimo caso, sebbene Dio, in tale visione erronea, che è radice del fondamentalismo, potesse chiedere la trasgressione del comandamento «Non uccidere», non avrebbe mai potuto chiedere di adorare un idolo o di bestemmiare il suo nome. La nefandezza, detta anche
abominio contiene nella sua radice l’idea di ciò che è assolutamente proibito. È ciò che viene detto in ambito più generico
tabù, ma che nella Bibbia almeno inizialmente è attribuito a ciò che si fa tra i pagani, mentre ciò che avviene tra gli Ebrei è detto
infamia. A questo punto si pone la discriminante fondamentale che tocca il presente e il futuro della fede. Della nostra e di quella delle altre religioni. 1) Per il cristianesimo più coerente all’intera rivelazione, letta alla luce di Cristo e del dono della sua vita, Dio deve essere compreso e predicato come
Colui che non vuole la violenza verso l’altro essere umano, né può volerla, perché la sua immagine impressa nell’uomo e la sua stessa natura («Dio è amore») fanno cadere la violenza sotto la fattispecie dell’abominio contro il suo nome e la sua persona. Non si tratta solo di un postulato razionale, ma di un dato rivelato. Occorre prenderne atto e, riconoscendo gli errori commessi anche nella storia della Chiesa, è tempo di indicare con chiarezza la nostra maturazione su qualcosa che finora non era stato capito affatto o era stato compreso solo parzialmente. 2) L’islam, l’ebraismo odierno e le altre religioni (di cui, qui, non si può parlare se non genericamente) possono e devono arrivare a una concezione simile. Muovendo dal rispetto della vita altrui, facendo appello ai diritti fondamentali dell’uomo, all’inviolabilità della vita, specie dell’innocente, possono e devono porre tutto ciò in relazione con il Dio che adorano e cui fanno riferimento. La stessa religione, come viene finalmente annunciato da qualcuno, non può essere fondata solo e semplicemente sulla “sottomissione”, concetto derivato, in quanto tale, da una cultura ancestrale e da un’esperienza superabile e superata, quella dei padroni e dei servi. È tempo di cercare e ritrovare nel concetto stesso di sottomissione non la realtà servile (antropomorficamente riferita appunto al servo e al padrone), ma la realtà della contemplazione e della grandezza come gloria che non uccide, né fa uccidere, ed è benevola e amica non solo del “servo” di Dio, che tale non è, ma del figlio o almeno dell’amico di Dio, il quale Dio è però amico dell’intera umanità. Quando si dice che gli eccidi e le stragi e i delitti inumani perpetrati in nome di Dio non sono atti di una religione, si vuol dire che non sono quelli di una religione che sia degna di tale nome. Non si può infatti uccidere in nome di Dio, gridando «Dio è grande», perché dicendo questo, si afferma nei gesti il contrario. Si afferma che quel Dio che uccide e vuole uccidere non è più Dio, ma solo ciò che il violento immagina come tale.