Atre anni dal clamoroso exploit elettorale del febbraio 2013 (un inaudito 25% dei voti alla prima prova elettorale nazionale) e mentre è in corso a Palermo un megaconvegno che ha visto il ritorno al timone di Beppe Grillo e che è destinato a mettere a fuoco le idee-guida del Movimento 5 Stelle, la crisi della giunta Raggi a Roma è la seconda seria battuta d’arresto subita da questa forza, dopo quella delle elezioni europee del 2014. Ma la gravità della crisi attuale non deve indurre a conclusioni affrettate: il soggetto politico fondato da Grillo e Casaleggio è qui per restare. Si può dubitare che riesca a conquistare il potere o a consolidarsi come secondo soggetto politico, ma appare certo che esso continuerà a far parte del paesaggio politico italiano negli anni a venire. Di qui la necessità di porsi una domanda fondamentale, semplice e complessa al tempo stesso: che cosa sono i cinquestelle?
La domanda, in sé, è assai ambigua: quando ci si interroga sulla natura di un partito, infatti, occorrerebbe prima chiarire se ci si riferisce a leader e gruppo dirigente o ai militanti o agli elettori; se si ha riguardo al programma e alla cultura politica o alle strategie, e altro ancora. Sinora a queste domande si è dato risposta mettendo in evidenza alcuni dati: la connotazione generazionale del Movimento (che ne fa la forza chiaramente maggioritaria fra gli infra-30enni e anche fra gli infra-40enni), l’antipolitica come suo modo di essere, la capacità di pescare elettori soprattutto fra i “perdenti della globalizzazione”, oltre che, in generale, fra gli scontenti (lo scorso mese Grillo ha girato le piazze invitando gli astanti a «votare con rabbia»). Tutto ciò in un Paese prostrato da un ventennio di stagnazione e da un lustro di crisi, con una politica debole e poco autorevole, in un continente nel quale forme analoghe di protesta non sono certo nuove, anche se assumono forme diverse, per lo più collocabili all’estrema destra (Afd in Germania, Fpö in Austria, Ukip in Gran Bretagna, Fn in Francia) o all’estrema sinistra (Podemos, Syriza, Linke...).
Il punto, in fondo, è proprio questo: mentre per le altre forze prodotte dalla crisi economica si è giunti a una qualche catalogazione con le categorie politologiche prevalenti (utilizzando anzitutto il vecchio asse destra-sinistra), ciò appare assai difficile per i cinquestelle. Pur nella consapevolezza che le classificazioni sono sempre un po’ traditrici, vale la pena tentare di servirsi di etichette note. La prima ipotesi è che il M5S sia e resti un oggetto politicamente non identificato né identificabile: l’antipolitica lo renderebbe inqualificabile lungo l’asse destrasinistra e secondo le logiche sinora note dei sistemi di partito europei. Si tratterebbe di una sorta di super-lista civica, trasferita dal piano locale, dove il fenomeno è ben noto, a quello regionale e nazionale. E questa interpretazione spiegherebbe sia l’eterogeneità/indistinzione ideologica del Movimento, sia la sua difficoltà a farsi forza di governo su una scala superiore a quella locale.
Ma, in fondo, questa prima ipotesi è una non risposta alla domanda di partenza. Essa prende troppo sul serio l’autoqualificazione del Movimento come anti-partito. Inoltre quasi sempre le Liste civiche sono disposte ad allearsi con partiti a esse vicini, mentre i cinquestelle rifiutano categoricamente ogni alleanza. Una seconda ipotesi riprende una vecchia definizione del Movimento proposta nel 2013 da Roberta Lombardi, allora capogruppo alla Camera: i cinquestelle sarebbero qualcosa di simile al «fascismo delle origini», vale a dire del movimento mussoliniano fino alla svolta della fine del 1921, e in particolare prima dell’abbraccio con i nazionalisti, che diedero al fascismo la sua ideologia e la sua cultura statolatrica. Questa ricostruzione prende sul serio sia la storia (personale o talvolta familiare e quindi magari interiorizzata inconsapevolmente) di estrema destra di alcuni leader del Movimento, oltre ad alcuni stili verbali da essi utilizzati. L’antipolitica, in fondo, è stata una delle cifre classiche del fascismo. Che nella fase iniziale era portatore di un vento rinnovatore assai confuso, ma rigidamente contestatario di tutti gli assetti preesistenti. Dunque una classificazione del Movimento a destra, che prende sul serio anche una certa fluidità fra i confini del suo elettorato e quello leghista al Nord, oltre che i legami ormai evidenti con la destra romana di vari pezzi del mondo che circonda il sindaco di Roma. La terza lettura, infine, valorizza alcune caratteristiche tipiche del movimentismo di sinistra sicuramente presenti nel Movimento: l’assemblearismo, il mito della democrazia diretta (declinata via Internet) caro a Casaleggio; un certo filone ambientalista; l’antiberlusconismo radicale (soprattutto alle origini); il favore per proposte come il reddito di cittadinanza; un certo anticlericalismo iniziale (poi stemperato) e il favor – sempre iniziale – verso i cosiddetti e controversi diritti civili. Malgrado la plausibilità delle prime due, questa terza lettura è forse quella preferibile: il M5S segnerebbe la crisi della politica istituzionalizzata a sinistra in forme analoghe a ciò che Forza Italia rappresentò per i partiti moderati a metà degli anni Novanta del Novecento: una sorta di berlusconismo o di leghismo di (anche estrema) sinistra. Caratterizzato da una forte spinta verso la de-istituzionalizzazione della politica e verso il rifiuto delle mediazioni, catalizzando la crisi di fiducia verso ogni tipo di autorità (dai politici ai medici) che affiora in questo non facile inizio di millennio. Ma siamo solo agli inizi: più che abbracciare una risposta, è importante riflettere sulla domanda.