Ester è come la stella del mattino che spande luce quando tutte le altre non brillano più.
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, VI
Per tornare non basta che termini l’esilio. C’è bisogno del desiderio di tornare, sentire viva e tenace la nostalgia di casa, e poi dire: “Mi alzerò, e tornerò da mio padre”. Nelle sofferenze che durano molto tempo finiamo spesso per adattarci alla nostra infelicità. All’inizio si soffre, si resiste, ci rifiutiamo di cantare i salmi di Sion in terra straniera; ma poi, giorno dopo giorno, l’istinto di sopravvivenza e l’invincibile bisogno di alleviare il dolore trasformano il paesaggio fuori e quello dell’anima, e ciò che sembrava brutto e nemico cambia volto fino a farci chiamare i fiumi di Babilonia con il dolce nome di “Giordano”. E così, quando un giorno qualcuno ci annuncia: “L’esilio è finito” (una malattia, un’assenza, un’angoscia), noi continuiamo semplicemente a fare la vita di prima. Rimaniamo in terra di esilio, non torniamo più a casa perché non c’è più nessuna casa dove tornare: le ghiande e il porcile sono diventati il palazzo di nostro padre, e non ci alziamo più.
Le cipolle d’Egitto sono ormai più buone e saporite della manna e delle quaglie, più dolci del latte e del miele – ci piacciono davvero, perché il dolore ci ha mutato le ghiandole salivari e la sensibilità del palato. E dopo aver atteso per anni, decenni, che arrivasse il momento della liberazione, quando finalmente si apre la porticina della gabbia non abbiamo più forza e più voglia di spiccare il volo libero, perché non c’è più nessun volo. Ci siamo dimenticati la libertà del cuore, pur di non morire. I pericoli più seri dei grandi dolori collettivi e individuali stanno in questa trasformazione inconsapevole del mondo in gabbia e della gabbia in mondo. Molta parte della sapienza donataci dalla vita consiste nel riuscire a non perdere mai di vista quella porticina che tende a diventare sempre meno visibile, per poter continuare a desiderare il volo, il giorno in cui finalmente la porta si spalancherà – perché sappiamo che prima o poi si aprirà, perché deve aprirsi, perché c’è qualcuno che ci ama che l’aprirà per noi.
Molti dei libri biblici nati durante e dopo l’esilio babilonese sono esercizi di questa natura, tentativi, stupendi, di tener viva nell’anima la differenza tra la gabbia e la libertà, tra Marduk e YHWH, a non smettere di consumarsi gli occhi sulla linea dell’orizzonte della terra promessa, oltre la grata della schiavitù. Il Libro di Ester è uno di questi esercizi, ed tra quelli più riusciti. Non tutti gli ebrei deportati in Babilonia tornarono a Gerusalemme dopo l’Editto di Ciro, re di Persia, del 538/537 a.C., che diede loro la libertà di tornare: solo un “resto” tornò, quel resto profetizzato da Geremia. Altri restarono invece a Babilonia, non osarono il volo, e molti furono assorbiti da quella grande civiltà straniera, dimenticarono tutto – Dio, alleanza, promessa. Ma la stessa tentazione dell’assimilazione culturale e religiosa l’avvertivano forte anche coloro che erano tornati a Gerusalemme, passata anch’essa sotto il dominio persiano.
Il Libro di Ester è ambientato nel tempo di Serse I, “Assuero” (486-485 a.C.), in Persia. È probabile che una prima versione del libro sia stata composta in un tempo non troppo distante da Serse, anche se poi fu completato più tardi (forse nel III-II secolo a.C.). Il libro di Ester è incluso nel canone di tutte le Chiese cristiane (è inserito tra i libri storici), anche se i cristiani non gli attribuiscono una grande considerazione né teologica né liturgica, i protestanti ancora di meno (famosa è la frase di Lutero nei suoi Discorsi a tavola (XXIV), dove afferma che avrebbe preferito che il libro di Ester «non esistesse affatto»). Ester è invece un libro amatissimo dal popolo ebraico. È l’ultimo libro dei cinque Megillot, cioè i “rotoli” che vengono letti durante le principali feste – Cantico, Rut, Lamentazioni, Qoelet, Ester. Ester viene letto interamente e proclamato pubblicamente nella sinagoga durante la festa di Purim (tra febbraio e marzo), la festa delle “sorti” – nel senso di “cambiare o ribaltare le sorti”, come accadrà nella storia narrata dal libro di Ester –, una festa simile al nostro carnevale, nella quale (a partire dal Rinascimento italiano) gli ebrei si mascherano e sono tollerate alcune trasgressioni (nel vino, ad esempio).
Ester dunque è una donna che non fa parte del “resto” d’Israele tornato a casa, è tra coloro rimasti a Babilonia, ma vuole salvare la sua fede e la sua anima. Per dirci, anche, che il rischio di smarrimento etico e spirituale non lo corre solo chi si trova lontano da casa, perché quello stesso rischio lo stava vivendo anche il “resto” tornato a Gerusalemme – ci si perde quasi sempre dentro casa, nei corridoi che portano dalla cucina alla camera da letto. Ester si trova in una corte di un re straniero, è una donna ebrea che vive in mezzo a un popolo con cultura e religione diverse dalla sua e ostile. È donna della diaspora, una donna fedele al suo Dio e alla sua cultura, che resiste in terra straniera. Ma Ester è anche una meditazione e un ausilio per ogni credente che si trova a vivere la propria fede in mezzo a una cultura diversa, che avverte tutta la fatica di custodire la fede mentre è circondato da quotidiani tentativi di assimilazione alla cultura dominante.
Ester è dunque anche un libro di resistenza etica e spirituale nei confronti di ogni impero e di ogni ideologia, di chi non si arrende, anche rischiando la propria vita. E in questo Ester è “sorella” di Giuseppe e di Daniele, altri due ebrei che si ritrovano in posizioni apicali in corti di sovrani stranieri, resistono, e salvano. Ma, a pensarci bene, Ester è anche immagine della condizione di chi nella vita segue una voce, una vocazione. All’inizio c’è un’esperienza collettiva e una compagnia, ma poi, un giorno, ci si ritrova soli, in mezzo a gente che improvvisamente non conosciamo e non riconosciamo anche se sono le stesse persone con cui siamo cresciuti. La fede nostra ci appare molto, troppo diversa da quella degli altri del “palazzo”, eppure sentiamo che non possiamo fuggire, che dobbiamo restare, e poi alla fine scopriamo che tutto quel dolore era l’ordito di una trama di una misteriosa salvezza.
Ester è un libro scelto per la festa di Purim anche per il suo stile narrativo (incalzante, teatrale, coinvolgente, con colpi di scena), che vede la presenza di episodi umoristici intrecciati con altri drammatici; anche per ricordarci che durante le diaspore e le persecuzioni lo humour, nei confronti di sé stessi e dei nostri oppressori, è una risorsa preziosa delle persone e delle comunità. Una tradizione ebraica tarda ha voluto collegare il libro di Ester alle maschere basandosi su una (possibile) etimologia del nome di Ester che rimanderebbe al “nascondersi” (str).
Il nascondimento svolge comunque un ruolo importante in Ester. È l’unico libro biblico dove, nella versione originale ebraica, non compare mai il nome di Dio. Un nascondimento del nome, forse, per impedire ai persiani di abusarne e profanarlo, ma forse per tenere vivo il desiderio di Dio nel tempo della sua assenza. La Bibbia ha imparato a riconoscere Dio quando scompare, a trovarlo dove non dovrebbe esserci, dove non c’è. La Bibbia è molte cose assieme. È anche lo spazio libero degli uomini e delle donne creato da Dio dal suo ritrarsi. Sulla Terra c’è sempre stata la religione del pieno: del tempio, dei sacrifici, delle liturgie, del culto che riempie lo spazio sacro coi suoi simboli, immagini, di oggetti sacri. Ma sulla Terra, grazie alla Bibbia, c’è anche la fede che svuota i templi, che libera lo spazio umano dagli oggetti di Dio perché, un giorno, qualcuno possa ascoltare una sottile voce di silenzio. La Bibbia ha custodito questo spazio libero, talmente libero da averlo liberato, in alcuni libri, dallo stesso nome di Dio, perché, forse, ci nascesse la nostalgia di sentirlo risuonare dentro il nostro cuore.
Ester è tra queste pagine liberate, dove il non parlare di Dio diventa un bellissimo parlare di donne e di uomini, di giustizia, di buon uso del potere, di ricchezza e di beni. A volte la Bibbia sembra dimenticarsi del linguaggio su Dio per invitarci a ricordarci il linguaggio dell’uomo, soprattutto il linguaggio dei poveri; fa tacere il grido di Dio perché, nel silenzio, possiamo ascoltare il grido dei nostri simili. Troveremo, forse, un nuovo-antico senso della fede e della spiritualità se in questa profonda notte collettiva ed epocale impareremo a vedere e udire Dio dentro la sua assenza. E in questo gesto Ester ci può essere preziosa compagna di viaggio.
Ester non è un nome ebraico – l’antico autore del testo ebraico ne era ben consapevole e le dà anche un nome ebraico: hadassa, cioè “mirto” (Ester 2,7). Ester è infatti il nome della divinità più importante del pantheon babilonese: Isthar, Astarte, il cui significato rimanda a “stella”, stella del mattino (Venere). Ester è una delle grandi donne delle Bibbia, una bellissima figura di donna fedele, forte, una regina, donna di salvezza, figura messianica. Nella donna dell’Apocalisse che ha «sul capo una corona di dodici stelle» (Ap 12,1) la Chiesa ha visto un riferimento a Maria, ma in quelle stelle si può scorgere anche un richiamo a Ester, che la tradizione cristiana ha associato alla Madonna, anch’ella regina e “tutta bella”; e in un verso della versione greca di Ester (5,1f) si è trovata persino una base biblica dell’Immacolata concezione: «La norma vale per gli altri, ma non per te».
Ester è la piccola luminosa luce del mattino di una notte senza Dio, come era la notte dell’occupazione persiana per gli ebrei, come è la notte del nostro tempo, dove l’eclissi di Dio sta generando una sempre più cupa eclissi dell’uomo e quindi dei poveri e dei deboli. Ed è importante che a rischiarare questa notte oscura sia una donna, è bello che questa luce mattinale che ci consente di fare il prossimo passo sia affidata alla lanterna di una presenza femminile. Nella liturgia dei Vespri di san Lorenzo, il 10 agosto, la notte di mezza estate, nell’antifona al Magnificat si legge: «La mia notte non ha oscurità, ma tutto nella luce diventa chiaro». Ester è la stella dell’assenza, che segna l’inizio di un nuovo giorno.