«Qui di chi è? – sentiva rispondersi: – Di Mazzarò. – E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese: – E qui? – Di Mazzarò... Poi vedeva un uliveto come fosse un bosco. Erano gli ulivi di Mazzarò. Tutta roba di Mazzarò».
La roba è una delle novelle più belle di Giovanni Verga e della letteratura italiana. Scritta nel 1880 mentre stava ultimando il suo capolavoro, I Malavoglia. Il capitalismo non c’era ancora, specialmente nella campagna siciliana, forse se ne vedevano alcuni primissimi tenui bagliori; ma Verga, dall’alta torre della sua poesia, in qualche mattina limpidissima riuscì a intravvedere il nostro mezzodì.
La sua critica a quel proto-capitalismo è ancora viva perché antropologica, è una riflessione radicale sugli effetti che la ricerca della ricchezza produce sulle persone incantate e incatenate dal totem della roba. In questo fascino irresistibile e quasi religioso c’è qualcosa di simile al «feticismo delle merci» di cui aveva parlato pochi anni prima Marx; ma lo sguardo dello scrittore siciliano è poetico, drammatico, attraversato da una grande pietas per le vittime delle sue storie, per i vinti che restano lungo la fiumana del progresso. E così ci svela dimensioni fondamentali e generali dello spirito meridiano, mediterraneo e cattolico di quel qualcosa di nuovo che sarà presto chiamato capitalismo. Uno spirito diverso da quello dell’Europa del Nord, ma diverso anche dallo spirito dei primi mercanti medioevali.
Verga intuisce che i venti della modernità stavano portando qualcosa di nuovo anche sotto le Alpi. Mazzarò, infatti, non è più l’aristocratico proprietario terriero («colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba»), ma non è neanche il moderno capitano d’industria. Non è neanche attratto dal denaro in sé come gli avari d’ogni tempo: «Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra». Mazzarò non accumula denaro, accumula roba. Nella civiltà cattolica-meridiana della vergogna, diversa dalle civiltà protestanti della colpa, la ricchezza vale solo se è vista dagli altri. L’occhio del "viandante" che apre la novella e chiede «Qui di chi è»?, è una presenza necessaria in tutto il Ciclo dei vinti. Perché se nessuno la vede, la ricchezza non vale e non serve. La roba è la ricchezza vista dagli altri. Questa visibilità è orgoglio, è riscatto sociale: «Tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza». O meglio: è illusione di riscatto.
I miracoli economici e sociali del Novecento italiano e meridiano sono stati anche e soprattutto il risultato dell’azione di tanti Mazzarò – di quelli rimasti nell’agricoltura e dei molti che dalla terra sono emigrati nella piccola e poi grande industria a conduzione familiare. Ricchezza investita in fattorie e fabbriche anche per essere vista dagli altri, e quindi per essere ammirati, lodati, invidiati. Una grande laboriosità: «Non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba». Un’etica del risparmio e quasi una mistica del non-spreco: «Lo vedete quel che mangio? Rispondeva lui, – pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba».
Quei primi imprenditori meridiani non erano edonisti, non cercavano né piaceri né divertimenti tramite il denaro. Non amavano il consumo che riduce la roba, ma l’investimento che l’aumenta e aumenta gli sguardi. Con la roba sviluppavano un rapporto quasi matrimoniale. Non a caso la roba era anche il nome della dote delle spose: «Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre». In realtà, più che sponsale questo di Mazzarò è un rapporto incestuoso, come quello di un padre che vuole che la bellissima figlia sia ammirata e invidiata, e mai data in sposa a nessuno.
Verga sa che la roba non riesce a mantenere le promesse che fa. Conosce anche le teorie economiche liberali del suo tempo che, dopo Galiani e Smith, confidavano nella «mano invisibile» degli effetti indiretti positivi dell’inganno-illusione della ricerca individuale della ricchezza. Le conosce ma non ci crede, perché lui guarda gli scarti, i vinti, è interessato «ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda» (Prefazione a I Malavoglia).
Il primo tarlo della civiltà della roba è intrinseco alla roba stessa. Se il capitalismo diventa il regno della quantità e dell’estensione, solo res extensa, non può conoscere alcun limite né freno: diventa presto illimitato e sfrenato: «Mazzarò voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re». Se la benedizione non si trova, come pensavano i calvinisti, nel lavoro inteso come vocazione (>beruf) ma nella roba, in particolare nella roba che gli altri possono vedere e invidiare, allora la gara a superarsi l’un altro in quantità ed estensione non ha mai fine: «I vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani» (Prefazione). Una prima sorpresa: lo "spirito" del capitalismo "vincente" (o vinto?) nel XXI secolo non è quello calvinista del lavoro/beruf; è, inaspettatamente, quello meridiano della roba. Una roba però di solo consumo, non più investita e accumulata. È il consumo, non il lavoro, il protagonista dell’economia globale di oggi che, non a caso, sta crescendo e crescerà soprattutto nelle culture comunitarie della vergogna (Asia, Africa), vicine allo spirito di Mazzarò.
Il colpo di genio della novella di Verga si trova però nella sua splendida e "disperata" conclusione, dove si trova la sua chiave di lettura. La sconfitta di Mazzarò ci viene introdotta da alcuni dettagli dell’ultima parte della novella: «Egli non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba». La sua è una economia della roba senza figli né futuro. Il capitalismo meridiano della roba ha (in parte) funzionato, e ha generato anche alcuni valori e virtù civili, finché è rimasto capitalismo della famiglia, dove la fabbrica era soprattutto la corda che legava tra di loro le generazioni e le classi: la roba si accumulava anche e soprattutto per i figli. Ecco perché l’economia di Mazzarò è anche tradimento dello stesso spirito meridiano della roba, che era nato profondamente familiare, comunitario e intergenerazionale.
La grande illusione-delusione di questa (dis)economia si rivela infatti chiaramente solo alla fine della corsa. Lo troviamo nella torsione narrativa finale e decisiva della novella: «Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla!». In questo epilogo c’è poi un secondo dettaglio, tremendo e stupendo: «E se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia». Questa economia della roba senza figli è invidiosa dei giovani e dei bambini. In una cultura della vita, i giovani sono il paradiso; in una cultura della morte sono l’inferno. È questa la nota tremenda della civiltà di Mazzarò. Tremenda e profetica, perché ciò che Verga, grazie al suo genio artistico, intravvedeva, ora si fa sempre più evidente. L’invidia cattiva verso i giovani non è teorizzata né, tantomeno, ammessa dai protagonisti del nostro sistema di sviluppo, sempre più simile all’economia di Mazzarò. C’è però un luogo dove l’invidia di Mazzarò è ormai troppo evidente per essere negata: la gestione della terra. Solo una economia della morte che invidia i giovani, che li guarda cioè con occhi storti, può lasciar loro un pianeta devastato, una terra ferita dalla ricerca nevrotica, illimitata e sfrenata della roba.
Questa invidia rabbiosa esplode in tutta la sua bellezza disperata nelle ultime righe della novella, che sono il suo capolavoro: «Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me!». Un capitalismo della roba senza figli e senza paradiso uccide l’ultima gallina nel suo ultimo giorno di vita, consuma l’ultimo metro cubo di gas per il suo ultimo respiratore. La crisi demografica ci dice che siamo già diventati il capitalismo senza futuro di Mazzarò. Il capitalismo di Mazzarò si porta nella sua stessa tomba le sue foreste, i suoi mari, i suoi fiumi, i suoi ghiacciai, perché non vede nulla di valore da lasciare in eredità ai giovani che invidia e non ama. La roba è diventata la terra, bastonata e picchiata a morte.
Mazzarò diventerà qualche anno dopo Mastro Don Gesualdo: «Allora, disperato di dover morire, [Don Gesualdo] si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui».
Sono ormai diversi anni che stiamo bastonando anatre e tacchini, che continuiamo a strappare sementi che dovrebbero sfamare figli che non abbiamo o non amiamo. Verga sapeva che questa economia è una economia disperata – noi non ce ne siamo ancora accorti. Saremo salvati solo da una economia che alleva anatre e tacchini, custodisce e pianta sementi mentre Mazzarò continua a colpire – siamo ancora in tempo?
l.bruni@lumsa.it