Uno dei molti doni esclusivi dell’infanzia e della fanciullezza è una relazionalità più vasta della nostra. I bambini, le bambine e i ragazzi sono capaci di dialogare con gli insetti, gli uccelli, gli alberi. È come se nel fagotto con cui arrivano sulla terra ci fossero anche uno sguardo e un udito diversi e più profondi per vedere cose e comprendere linguaggi che poi svaniscono una volta divenuti grandi. Sono forse i suoni e le parole dell’Adam prima di Caino, voci e immagini di quella terra promessa che abbiamo intravista da piccoli, che poi abbiamo dimenticato, ma che in qualche notte sogniamo ancora – e il sogno ci piace molto. Sta qui la radice della vera reciprocità tra adulti e ragazzi. Loro hanno qualcosa in meno di noi, ma hanno anche qualcosa in più, che se riusciamo a riconoscere ci protegge dal paternalismo sbagliato e crea uno degli spettacoli più belli sotto il sole: la fraternità genuina tra grandi e piccini. Francesco d’Assisi è stato capace di sentire questa fraternità con tutte le creature viventi perché, per un amore folle al Vangelo, era riuscito per grazia a tornare bambino. Gli amici di Francesco amano molto Pinocchio, perché in lui rivedono qualcosa del “giullare di Dio”, di quella libertà che solo i fanciulli (naturali o evangelici) possiedono.
Pinocchio parla con merli e lucciole, grilli e pesci. Tra le sue esperienze di reciprocità decisive ci sono quelle con il colombo che lo trasporta sul dorso per mille chilometri, o con il tonno che lo salva nel mare. Il cane mastino Alidoro, salvato da Pinocchio quando rischiava di affogare, gli rivela un segreto prezioso: «In questo mondo quel ch’è fatto è reso». È la legge aurea fondamentale della vita, la reciprocità, ed è un cane a rivelagliela e poi a viverla: quando infatti Pinocchio stava per essere fritto nella padella del pescatore verde (capitolo XXVIII), sarà Alidoro ad «abboccarlo» e salvarlo. Pinocchio ci dice che non basta un villaggio per crescere un bambino: ci vuole tutto l’universo.
La società dove nacque Pinocchio era molto diversa dalla nostra. Le famiglie e la Chiesa formavano bambini e ragazzi a una ben precisa idea di mondo. Le regole educative erano chiare e condivise, e così Collodi poteva essere trasgressivo mettendosi dalla parte di Pinocchio che disobbediva e scappava di casa. Quando invece oggi guardiamo i ragazzi e le ragazze ci accorgiamo subito che una loro povertà consiste nell’impossibilità di disobbedire per la mancanza di regole condivise e chiare da sfidare. È questa la prima esperienza di molti insegnanti. Se però, anche qui, riusciamo ad andare oltre questa prima dimensione possiamo scoprire qualcos’altro.
Dopo aver tentato, invano, di raggiungere a nuoto Geppetto in mezzo al mare, Pinocchio giunge a nuoto nell’Isola delle Api industriose (Capitolo XXIV): «Le strade formicolavano di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti lavoravano, tutti avevano qualcosa da fare. Non si trovava un ozioso o un vagabondo, neanche a cercarlo col lumicino». Non è un paese industriale: è un paese industrioso. Non dunque un’immagine del capitalismo nascente, ma quella di una società frenetica senza tempo libero, di un paese senza ozio. L’uso della metafora delle api era molto comune per indicare una buona società. La “Favola delle api” del moralista francese Fénelon, descriveva un mondo dove «l’ozio e la pigrizia sono stati banditi», e «il merito è l’unico percorso che porta alle prime posizioni» (Les Abeilles, fine Seicento). Leggendo questo capitolo non traspare la simpatia di Collodi-Pinocchio per questa società di solo lavoro e senza tempo libero – forse aveva più simpatia per la “favola delle api” di Mandeville e della sua lode del vizio. Ma la critica di Collodi non è rivolta alla società degli adulti: gli sta a cuore la società dei fanciulli.
Pinocchio giunto su quell’isola esclama: «Ho capito - questo paese non è fatto per me!». In realtà, è un luogo molto simile al paese dei balocchi: nel paese dei balocchi non c’è scuola («le vacanze dell’autunno cominciano con il primo gennaio e finiscono con l’ultimo di dicembre»: capitolo XXX), solo giochi; in quello delle api industriose non c’è tempo libero, solo lavoro. Due mondi diversamente sbagliati. Non è vero che i ragazzi non vogliono lavorare. Vogliono solo “lavorare” ogni tanto, e nel loro modo e nel loro mondo.
«Cosa vuoi fare da grande?» – chiese il mio amico maestro, Matteo, a uno scolaro di quinta elementare. «Riposarmi», gli rispose. I nostri ragazzi sono oberati di “lavoro”: scuola, compiti, palestra, musica, danza, piscina, catechismo … Una gestione del tempo che lascia pochissimo spazio al dolce far niente che, da piccoli, è invece essenziale. È in quel tempo libero, fatto di lunghe ore trascorse a giocare, a parlare con un giocattolo o con un gatto (un tempo che oggi va liberato anche dagli smartphone), si sviluppa la fantasia, crescono la creatività e il desiderio di cose diverse. È il terreno non messo a reddito dove i fanciulli possono e devono pascolare bradi. Mi sono formato con la matematica e con le poesie, ma alcune delle cose più importanti le ho apprese nelle corse infinite nei prati, nelle lunghe estati passate a fare dighe e tuffi nel torrente, a costruire capanne sugli alberi. Lunghe ore senza padri, madri, maestri, educatori – e nel mio bellissimo “paese dei balocchi” sono diventato grande. Noi grandi possiamo vivere (male) anche senza shabbat: i ragazzi no, muoiono nell’anima senza un settimo giorno diverso.
Pinocchio ha fame (ha sempre fame): «Non gli restavano che due modi per potersi sdigiunare: o chiedere un po’ di lavoro, o chiedere in elemosina un soldo o un boccon di pane». Ma «a chiedere l’elemosina si vergognava», perché Geppetto gli aveva insegnato che «l’elemosina hanno il diritto di chiederla solamente i vecchi e gl’infermi... Tutti gli altri hanno l’obbligo di lavorare». È fin troppo evidente che questo mondo non è quello amato da Collodi – bisogna stare molto attenti a individuare dove si trovi il pensiero dell’autore: quasi mai sta nelle morali esplicite dei loro personaggi. Sul giornale Il Fanfulla, Collodi infatti scriveva: «A Firenze l’accattonaggio pubblico è severamente proibito. E sta bene. Nei paesi civili non si chiede l’elemosina. Nei paesi civilissimi non solo non si chiede, ma nemmeno si fa. Ed è appunto in grazia di questa proibizione severissima se in ogni strada di Firenze si trova sempre un accattone» (1874).
Il burattino incontra un primo passante: «Un uomo tutto sudato e trafelato, il quale da sé tirava con gran fatica due carretti carichi di carbone. Pinocchio gli si accostò e, abbassando gli occhi dalla vergogna, gli disse sottovoce: Mi fareste la carità di darmi un soldo, perché mi sento morir dalla fame? – Non un soldo solo, rispose il carbonaio, ma te ne do quattro, a patto che tu m’aiuti a tirare fino a casa questi due carretti di carbone. – Mi meraviglio! – rispose il burattino quasi offeso –; per vostra regola io non ho fatto mai il somaro». Pinocchio chiede, sottovoce, “la carità”, e l’uomo gli offre un contratto. Pinocchio non accetta. Incontra poi un muratore: «Vieni con me a portar calcina, e invece d’un soldo, te ne darò cinque». Qui i soldi diventano cinque, ma Pinocchio non accetta i contratti degli uomini, e si mette a chiedere l’elemosina. Neanche ora segue le raccomandazioni del padre e del mondo dei grandi, trasgredisce: «In men di mezz’ora passarono altre venti persone, e a tutte Pinocchio chiese un po’ d’elemosina, ma tutte gli risposero: — Non ti vergogni?... impara a guadagnarti il pane!».
Pinocchio preferisce l’elemosina al lavoro, preferisce la vergogna al contratto. Il diritto al cibo e ai beni dei ragazzi non nasce da un rapporto do ut des. No: il nostro dovere di nutrirli nasce solo e unicamente dalla loro condizione di ragazzi. Il loro pane non deve essere meritato. La rinuncia al contratto di Pinocchio e dei ragazzi ci indica allora un orizzonte dell’umano più largo di quello del merito e dei commerci – valiamo di più, molto di più. E in questo i fanciulli somigliano molto a Dio, e Dio a loro.
Pinocchio alla fine del suo soggiorno sull’isola finirà per fare un lavoro: «Finalmente passò una buona donnina, che portava due brocche d’acqua. – Vi contentate, buona donna, che io beva una sorsata d’acqua alla vostra brocca? – chiese Pinocchio, che bruciava dall’arsione della sete. – Bevi pure, ragazzo mio!». Il dialogo con questa donna inizia con un dono. Una donna, che poi si svelerà essere la sua fatina, alla prima richiesta di un bicchiere d’acqua di Pinocchio risponde con un “sì” incondizionale: non gli chiede di guadagnarsi l’acqua, gliela dona.
Con i ragazzi la reciprocità buona è solo quella attivata dal dono, è la figlia bella della gratuità. Pinocchio continua: «La sete me la sono levata! Così mi potessi levar la fame!... – Se mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d’acqua, ti darò un bel pezzo di pane. — Pinocchio guardò la brocca, e non rispose né sì né no». Qui il discorso della donna somiglia ai precedenti dialoghi con gli uomini. E, di nuovo, Pinocchio non accetta. Ma ecco la svolta: «E insieme col pane ti darò un bel piatto di cavol fiore condito coll’olio e coll’aceto... E dopo il cavol fiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio». Quella donna supera lo scambio di equivalenti. La reciprocità dei fanciulli nasce dall’eccedenza asimmetrica. Lo scambio contrattuale degli adulti per loro è troppo poco: «Alle seduzioni di quest’ultima ghiottoneria, Pinocchio non seppe più resistere».
La reciprocità diversa dei ragazzi inizia col dono e continua con l’eccedenza. È così che, domani, impareranno bene l’arte della reciprocità diversa e necessaria dei contratti.
l.bruni@lumsa.it
Con il capolavoro di Collodi si conclude questa serie “Radici di futuro” e i nostri dialoghi con alcuni grandi autori – spero di riprenderli in futuro. Da domenica prossima tornerò ai commenti biblici con il Libro di Ester. E ogni volta che giungo alla fine di un percorso su “Avvenire”, il mio primo grazie va al suo Direttore, primo compagno e protagonista dei miei viaggi sempre nuovi, che si svolgono ogni volta dentro le ferite e le gioie del nostro tempo – difficilissimo e tremendo, ma sempre meraviglioso perché è il solo tempo che abbiamo per amare.