Perché hai portato via i miei figli, perché li hai fatti uccidere a fil di spada e li hai lasciati alla mercé dei nemici? E allora il Dio supremo fu mosso a compassione e disse: «Per te Rachele, per te ricondurrò i figli d’Israele alla loro terra»
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei
«Il settimo giorno del quinto mese – era l’anno diciannovesimo del re Nabucodònosor, re di Babilonia – Nabuzaradàn, capo delle guardie, ufficiale del re di Babilonia, entrò in Gerusalemme. Egli incendiò il tempio del Signore e la reggia e tutte le case di Gerusalemme; diede alle fiamme anche tutte le case dei nobili. Tutto l’esercito dei Caldei, che era con il capo delle guardie, demolì le mura intorno a Gerusalemme. Nabuzaradàn, capo delle guardie, deportò il resto del popolo che era rimasto in città, i disertori che erano passati al re di Babilonia e il resto della moltitudine» (2 Re 25,8-11). Con la fine della storia di Gerusalemme, occupata, distrutta, data alle fiamme e con parte del popolo deportato in Babilonia, termina anche il nostro commento al Secondo Libro dei Re. E si conclude anche quella storia che era partita nella Genesi, nel caos informe, vivificato e ordinato dallo Spirito. Lì fa la comparsa l’Adam, il centro di quella creazione che culmina nello shabbat, nell’atto/non-atto con cui Elohim, nel settimo giorno, "smette" (shabbat) e si separa dalla sua creazione. Uno smettere e un separarsi che sono anche l’inizio della storia, cioè di quell’intreccio di vita e di morte, di virtù e di peccato, di parole di Dio e parole di uomini e donne, di cui è composta la Bibbia. Lo shabbat (non l’uomo) è il culmine della creazione, ed è anche il suo destino e il suo eskaton. La creazione termina con lo shabbat a dirci che la storia terminerà quando tutto sarà shabbat, quando la stessa legge varrà per tutti gli uomini e donne senza più le distinzioni dei molti status degli altri sei giorni, e quando la fraternità umana abbraccerà la terra e il cosmo. Non troveremo un rapporto possibile e capace di futuro con il creato se non daremo vita a una nuova cultura dello shabbat, senza imparare di nuovo a "smettere".
Oggi finisce la "storia" di Adamo, Eva, Caino, Abele, Noè, Abramo, i patriarchi, l’Egitto, Mosè e la liberazione dalla schiavitù, la terra promessa, e poi Samuele, Saul, Davide e la monarchia fino all’ultimo re di Giuda, Ioiachìn, con cui si chiude il Secondo Libro dei Re: «Ora, nell’anno trentasettesimo della deportazione di Ioiachìn, re di Giuda, nel dodicesimo mese, il ventisette del mese, Evil-Merodàc, re di Babilonia, nell’anno in cui divenne re, fece grazia a Ioiachìn, re di Giuda, e lo liberò dalla prigione. Gli parlò con benevolenza e pose il suo trono al di sopra del trono dei re che si trovavano con lui a Babilonia... Dal re gli venne fornito il sostentamento abituale ogni giorno, per tutto il tempo della sua vita» (2 Re 25,27-30). Siamo trentasette anni dopo la deportazione (nel 561), e qui incontriamo una nota di speranza: Ioiachìn, il re considerato da una parte del popolo (e dal redattore) come il legittimo erede di Davide, viene liberato, e gli viene riservato un posto di riguardo nella corte del nuovo re di Babilonia, il figlio di Nabucodonosor - un dato che ritroviamo anche in Geremia (52,31-34), confermato indirettamente anche da alcuni testi rinvenuti a Babilonia. La storia di Israele si chiude auspicando che l’esilio non sarà l’ultima parola. Troviamo qui, forse, una eco del grande e costante insegnamento del profeta Geremia: una storia è finita, ma non è finita la storia, perché un resto tornerà. Il redattore di questi ultimi capitoli tremendi vede nella riabilitazione dell’ultimo re di Giuda un segno e un annuncio che quella storia iniziata nel grande silenzio della creazione potrà ancora continuare. Perché nella tela biblica che dalla Genesi arriva all’ultimo re davidico, l’ordito che si intreccia con la trama dei fatti storici, è rappresentato dalle parole e dalle azioni dei profeti. Le parole e le azioni di quei profeti che troviamo citati nei libri storici (Elia, Eliseo, Isaia, la profetessa Hulda, Samuele e i tanti, con nome o senza, che abbiamo incontrato in questi mesi), ma anche le parole e le azioni di altri profeti che hanno contribuito direttamente alla interpretazione di quella storia che viene narrata.
Avremmo infatti un’altra storia, un altro senso dei fatti e un’altra salvezza senza Ezechiele, Geremia e il secondo Isaia, e senza altri profeti non-falsi, quasi sempre ignoti e senza nome. Questi profeti videro, profetizzarono e vissero la caduta di Gerusalemme e l’esilio babilonese, fornirono parole prime ed essenziali per capire l’immane tragedia che stava accadendo sotto i loro occhi. L’esilio fu anche, nonostante l’immenso dolore, un tempo favorevole di benedizione per il popolo di Giuda anche per la presenza dei profeti in quella grande shoah (tempesta devastante). Finché c’è accanto a noi un profeta che condivide il nostro stesso inferno, da quell’inferno possiamo vedere qualche squarcio di paradiso. Gli oracoli e i gesti di Ezechiele, le parole infuocate di Geremia, i canti del servo di YHWH del secondo Isaia, furono quella feritoia che dall’inferno dava verso il cielo, da cui videro uno shalom possibile anche in esilio; grazie a essa riuscirono a non dimenticare il patto e la promessa, e continuarono a sognare il loro Dio diverso senza confonderlo con gli attraenti dèi babilonesi. Possiamo sperare di tornare a casa se nell’esilio non abbiamo mai smesso di sognarla. Quei profeti, meravigliosi e immensi, che in questi anni di commenti domenicali abbiamo potuto conoscere un poco, tennero vivo il sogno di YHWH, e furono capaci di farlo continuare a "vivere" sebbene fosse stato sconfitto (ogni fede continua a vivere nelle nostre crisi se noi decidiamo di farla vivere e risorgere, non dimenticandola per il troppo dolore delle sconfitte e delle delusioni). E così, dopo l’esilio, "YHWH il Signore degli eserciti" divenne "YHWH il Signore delle schiere celesti": la sconfitta politica fu essenziale per comprendere che il regno di Dio e la sua oikonomia non sono quelli della potenza ma della debolezza, che il luogo dove vive Dio è il "cielo" e quindi era possibile pregarlo e averlo anche lungo i fiumi di Babilonia, anche senza quel tempio meraviglioso ora saccheggiato, distrutto, bruciato. La morte dell’antica idea di YHWH ne generò nell’esilio una più alta, più spirituale e universale, che è il grande dono teologico ed etico lasciatoci in eredità dall’umanesimo e dalla storia biblica.
L’esilio fu il tempo in cui furono scritti alcuni tra i libri più belli e importanti della Bibbia. Molti dei salmi fiorirono da quelle lacrime, lì furono generati gli immensi testi profetici, scritti i racconti fondativi della Genesi e dell’Esodo, tutti figli del dolore collettivo più grande. Mentre tutto crollava, mentre la distruzione era radicale, mentre la città santa di Davide e il tempio di Salomone erano devastati e incendiati, quella stessa terra ferita produsse alcuni dei capolavori più grandi della letteratura di tutti i tempi. In quell’esilio, senza tempio e senza patria, quegli scrittori furono capaci di "rivedere" il tempio rinascere dalla sapienza di Salomone, bello e puro come il primo giorno quando tutto era luminoso e incontaminato. Rividero la fede di Abramo e, mentre ce la raccontavano, ricredettero alla promessa di una terra diventata ora un ammasso di macerie; seppero capire e narrare con parole splendide l’alleanza con YHWH mentre il patto e l’elezione venivano spazzati via da Nabucodonosor e dal suo impero. Credettero, videro e scrissero parole meravigliose su Dio, perché prima furono capaci di crederle nella notte della fede: da quel buio generativo nacquero il roveto ardente, il combattimento di Giacobbe, il canto di Miriam e la sua danza col tamburello, le grandi parole del Sinai...; in quella devastazione ci raccontarono la liberazione dalla schiavitù egiziana mentre venivano condotti nella schiavitù babilonese, e quella schiavitù rese meravigliosa la narrazione del mare aperto.
E se oggi, nel tempo della distruzione dei nostri templi, quando una storia è chiaramente finita, fosse il tempo in cui scrivere i libri più belli? Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza i profeti, che furono dei nuovi Mosè, perché capaci di indicare una terra risorta nel tempo del suo sabato santo: «Pertanto, ecco, verranno giorni nei quali non si dirà più: "Per la vita di YHWH che ha fatto uscire gli Israeliti dalla terra d’Egitto!", ma piuttosto: "Per la vita di YHWH che ha fatto uscire gli Israeliti dalla terra del settentrione e da tutte le regioni dove li aveva dispersi!"» (Geremia 16,14-15). Una nuova promessa, una nuova alleanza, una nuova terra. Queste cose le sanno fare soltanto i profeti. Qualche volta le sappiamo fare, un poco, anche noi. Quando riusciamo a dire a un amico parole sublimi sull’amore e sul matrimonio da sopra le macerie della nostra storia d’amore; o quando diciamo, sinceramente, parole bellissime e vere sulla fede e su un Dio che da molti anni non ci parla più, abbandonati in un esilio che sembra non finire mai; o quando desideriamo che esista il paradiso anche se siamo convinti che non sarà per noi. Sta qui molto del significato di una delle parole umano-divine più belle: la gratuità. La Bibbia è molte cose insieme, ma è anche e soprattutto un grande canto alla gratuità. Qui tutto è grazia. La gratuità è anche l’altro nome dello shabbat. Perché se in una terra senza tempio lo shabbat divenne in Babilonia il tempio del tempo, l’esilio fu lo shabbat della storia, quel tempo in cui tutto si fermò, tutto "smise". Si fermò il culto, si fermarono i sacrifici, si fermò la religione, si fermò l’elezione, si fermò la promessa, si fermò anche Dio. E dopo quel fermarsi collettivo ed epocale, nulla fu come prima. È negli esili che si impara il tempo.
E anche questa volta siamo arrivati alla fine. Anche questa volta, come ogni volta, resta la gioia della strada, degli incontri, soprattutto delle sorprese; e ogni volta resta la malinconia per qualcosa che finisce, che viene (in parte) curata dalla Bibbia stessa: «Meglio la fine di una cosa che il suo inizio» (Qohelet 7,8). E resta l’impressione di aver scritto molte parole ma non quelle che si sarebbero dovute scrivere – sarà questa consapevolezza impotente la gratuità di questo mestiere? E, ancora una volta, grazie ad Avvenire, al suo direttore, Marco Tarquinio, che continua a credere, da un Natale di sei anni fa, nel lavoro di un economista che si ostina a commentare la Bibbia. E poi, come sempre, grazie a voi lettori, per le molte lettere, per la vostra benevolente amicizia. Infine, dopo questi sei mesi trascorsi in compagnia dei Libri dei Re, resta l’«oikonomia della piccolezza»: quella di Davide, il più piccolo dei figli, scelto non per meriti ma per grazia; quella di Betlemme, la più piccola tra le città di Giuda. Resta l’attesa, resta il desiderio di sognare Dio, per non dimenticarlo nel lungo tempo dell’esilio.
Buon Natale.
l.bruni@lumsa.it