Mai col sangue dei figli
sabato 26 ottobre 2019

Una teoria puramente sacrificale dei vangeli deve fondarsi sull’epistola agli Ebrei. Ma l’Epistola non riesce, credo, a cogliere la vera singolarità della passione di Cristo, e lascia in ombra l’assoluta specificità del Cristianesimo
René Girard, Il capro espiatorio

L'ideologia del merito è anche ideologia del demerito, i sistemi che premiano i meritevoli devono necessariamente punire i demeritevoli, e ogni merito-crazia è anche una demerito-fobia. Senza punire chi ha meritato le punizioni non è possibile premiare chi ha meritato i premi. Ma siccome siamo molto più capaci di trovare le colpe (negli altri) dei meriti, i sistemi meritocratici sovrabbondano di pene, perché alla base di ogni sistema meritocratico c’è un profondo pessimismo antropologico, anche quando è mascherato da belle parole sulle virtù e sui premi. Perché premiando soltanto i "vincenti" e chi raggiunge la vetta del dilettoso monte (la meritocrazia è necessariamente gerarchica e posizionale), si dimentica che siamo tutti diversamente meritevoli, che ogni persona può avere, e ha, una sua via di eccellenza che non può e non deve essere confrontata gerarchicamente con quelle degli altri né misurata con indicatori unici e uguali per tutti.


Non è certo un caso che la crescita della cultura del business, il primo veicolo della meritocrazia, sia oggi accompagnata da una nuova stagione di giustizialismo e di inasprimento delle pene. «Il profeta Eliseo chiamò uno dei figli dei profeti e gli disse: "Cingiti i fianchi, prendi in mano questo vasetto d’olio e va’ a Ramot di Gàlaad. Appena giunto là, cerca Ieu (…) Prenderai il vasetto dell’olio e lo verserai sulla sua testa, dicendo: "Così dice YHWH: ti ungo re su Israele"» (2 Re 9,1-3).

Su Israele regnava Ioram. Eliseo riconosce e legittima un’insurrezione, consacra e incoraggia ciò che oggi chiameremmo un colpo di Stato, che il testo ci presenta anche come riforma religiosa jahvista e anti-idolatrica. La saga di Ieu, segnata da scene di violenza efferata, ci costringe a riflettere su un grande tema che attraversa tutta la Bibbia: il rapporto tra religione e violenza; sul paradosso di un Dio che sembra servirsi della violenza degli uomini per realizzare il suo disegno di salvezza. Eliseo, per adempiere una profezia di Elia (1 Re 19,16), manda un profeta suo discepolo a consacrare uno dei re più cinici e sanguinari di Israele, dà la sua benedizione a un uomo che per riportare la purezza del culto di YHWH in Israele si macchierà di crimini mostruosi, in "nome del Signore". Il bisogno radicale della giustizia divina che pur segna tutta la Bibbia – YHWH è un Dio diverso e vero perché è giusto – porta con sé una legge simmetrica del contrappasso dove ciascuno riceve quanto ha meritato, nel bene e nel male. Dio è giusto perché premia i buoni e punisce i cattivi.

È così che gli uomini hanno iniziato a formarsi quel senso di giustizia che ha poi scritto codici e costituzioni, che hanno superato in umanità molte delle giustizie scritte nella Bibbia e negli altri libri sacri. La Bibbia è stata usata per giustificare le guerre sante e per i genocidi degli infedeli e degli idolatri, perché ci sono molte pagine bibliche che si prestano perfettamente a questo fine. E così alla fine della saga di Ieu leggiamo: «YHWH disse a Ieu: "Poiché hai agito bene, facendo ciò che è giusto ai miei occhi, (...) i tuoi figli, fino alla quarta generazione, siederanno sul trono d’Israele"» (2 Re 10,30). Facendo ciò che è giusto ai miei occhi: cioè l’assassinio di Ioram, di Acazia re di Giuda, della regina Gezabele, i settanta bambini decapitati di Acab, lo sterminio di tutti i parenti di Acazia, di tutti i fedeli a Ioram in Samaria, di tutti i fedeli di Baal.

Ci sono due altri temi che intersecano questi capitoli tremendi: lo shalom e la lealtà sbagliata. Nel capitolo nove, la parola shalom ricorre molte volte. Quando Ieu parte verso il re Ioram, che si trovava in Izrael a curarsi perché ferito. Appena il re lo vede gli domanda: «Tutto bene, Ieu?», cioè: Ieu, porti shalom? Ieu gli Rispose: «Come posso portare shalom fin quando durano le prostituzioni di Gezabele, tua madre, e le sue numerose magie?» (9,22). Che cosa era lo shalom nella cultura biblica? In ebraico shalom è parola molto ricca. Il significato più immediato è pace, benessere, prosperità, bene. Ma la parola rimanda a equilibrio, al ristabilire un ordine spezzato, tanto che alcune varianti (shulam e meshulam) richiamano il pagare. Pace e pagare hanno una radice comune. Pagare viene da pacare, da fare pace, quiete – la quietanza è l’atto che attesta che il creditore è stato pienamente soddisfatto. Lo shalom incorpora infatti una idea di giustizia come riparazione, come restituzione ed estinzione del debito e del suo squilibro. Non c’è shalom finché una delle due parti sente uno squilibro a proprio svantaggio. Ecco perché i contratti, le estinzioni dei debiti, si siglano con una stretta di mano di pace, di shalom.

È su questa linea dello shalom che si muove la vicenda sanguinosa di Ieu: è stato scelto da YHWH e dai suoi profeti per riportare equilibrio in Israele, per far "pagare" ai re idolatri e alle loro famiglie le loro colpe, e così fare shalom. Ieu, alla domanda sullo shalom, deve rispondere: come ci può essere shalom finché la madre del re, Gezabele, continua le sue idolatrie? Per avere shalom occorre ristabilire l’equilibrio spezzato dalla corruzione religiosa. È questo shalom della religione economico-retributiva che caratterizza molte pagine bibliche: debiti e crediti, pagamenti e riscossioni, mastrini accesi e spenti da un Dio-ragioniere che registra tutto, fino a mille generazioni. È dentro questa logica che va letto anche l’episodio truce dell’assassinio della regina Gezabele. L’abbiamo già incontrata per la sua persecuzione dei profeti di YHWH e per la vigna di Nabot. Non a caso Ieu, dopo aver ucciso con una freccia Ioram, ordina al suo soldato: «Sollevalo, gettalo nel campo di Nabot di Izreèl» (9,25). La giustizia a Nabot è fatta, lo shalom è ristabilito. Perché Nabot abbia giustizia c’è bisogno di un prezzo da pagare, che non può che essere altro sangue che scorre nella direzione inversa. Stesso discorso per l’esecuzione della regina Gezabele, la vera autrice di quel delitto: «Ieu arrivò a Izreèl. Appena lo seppe, Gezabele si truccò gli occhi con stibio, si ornò il capo e si affacciò alla finestra (...) Ieu alzò lo sguardo verso la finestra e disse: "Chi è con me? Chi?". Due o tre cortigiani si affacciarono a guardarlo. Egli disse: "Gettàtela giù". La gettarono giù. Parte del suo sangue schizzò sul muro e sui cavalli, che la calpestarono» (9,30-33). Il sangue di Nabot è pacificato (shalom) da quello della regina che l’aveva fatto uccidere ingiustamente. Come se, ieri o oggi, il sangue di un ingiusto potesse lavare quello versato da un innocente.

Questo episodio, triste e pieno di pietas – è toccante il dettaglio della regina, non più giovane, che si trucca per prepararsi all’incontro che sa essere decisivo, come se volesse arrivare ancora bella e piacente all’appuntamento con la morte: lo vediamo molte volte, nelle case e negli ospedali, e sono sempre visioni umanissime –, ci fa entrare, seppur velocemente, nell’altro tema di questo ciclo narrativo: la cattiva lealtà. Quei due o tre cortigiani capiscono che ormai il vento politico è cambiato. Sono l’immagine dei collaboratori ruffiani, che non hanno nessuna remora a gettare la regina dalla finestra, a far calpestare dai cavalli chi avevano adulato fino a un secondo prima. Lo stesso tema torna nell’altro gesto tremendo di Ieu. Acab, il marito di Gezabele, «aveva settanta figli a Samaria. Ieu scrisse lettere e le inviò a Samaria ai capi di Izreèl, agli anziani e ai tutori dei figli di Acab» (10,1). Nella seconda lettera, Ieu scrisse: «Se siete dalla mia parte e se obbedite alla mia parola, prendete i capi dei figli del vostro signore e presentatevi a me domani a quest’ora a Izreèl» (10,6). La parola ebraica per "capi" è la stessa per "teste". Nell’incertezza, quei capi di Samaria invece di interpretare la parola nel senso più umano e portare quei settanta bambini-principi dal nuovo re, «ricevuta la lettera, quelli presero i figli del re e li ammazzarono tutti e settanta; quindi posero le loro teste in ceste e le mandarono da lui a Izreèl» (10,7). Altro esempio di lealtà ruffiana: per accontentare il nuovo sovrano crudele, si interpretano le sue parole nel loro senso più crudele. Si eccede in cattiveria come segno di lealtà e di devozione, con la speranza di creare nel capo un debito di riconoscenza da usare a loro vantaggio – il ruffiano anche quando sembra agire a vantaggio del capo, agisce sempre per il proprio interesse. Ieu però non comprende quel gesto eccessivo ed estremo: «Chi ha colpito tutti questi?» (10,9). I ruffiani non sono stimati neanche dai loro capi adulati; li usano, se ne servono, ma non li amano né li stimano.

Gli uomini hanno sempre cercato di associare Dio ai loro calcoli economici, ai loro shalom di prezzi e di compensazioni. Lo hanno chiamato "Signore degli eserciti", e continuiamo a chiamarlo così, anche quando quel dio non abita più in cielo ma è solo una persona o una idea. Abbiamo un bisogno invincibile di simmetrie, di pene che ricreino l’ordine spezzato. Ne abbiamo bisogno noi, ma questo nostro bisogno ha prodotto teologie e religioni che hanno così costretto Dio a diventare meno umano delle donne e uomini migliori. Un giorno, però, quello stesso umanesimo biblico generò un uomo diverso, che ci insegnò un altro shalom, non più legato ai pagamenti e ai prezzi, un regno dove la pace non nasce dagli equilibri ma dagli squilibri, dove chi riceve un torto non si vendica e perdona settanta volte sette, dove l’amore non compensa debiti e crediti ma ne crea sempre di nuovi. Un altro shalom, un altro regno, un altro amore-agape. Ma noi abbiamo fatto di tutto per riportarli dentro le regole dei nostri equilibri e dei nostri pagamenti, fino a raccontare che la sua morte fu il prezzo pagato da quel Figlio diverso a un Padre che poteva essere soddisfatto solo da un sangue prezioso come può essere solo il sangue di un figlio. Teologie dell’espiazione che hanno dimenticato che sulla terra nessun padre vuole il sangue dei figli, e che il cielo è un posto bello almeno quanto la terra se il padre celeste non è meno buono di noi. Quando Gesù ci ha permesso di chiamare Dio "Padre nostro" ci ha anche detto che per capire e conoscere Dio dobbiamo imparare a guardare le madri e i padri.

l.bruni@lumsa.it

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