Salvami, o Dio,dalle molte paroleSant'Agostino, De TrinitateGli effetti più rilevanti delle nostre azioni sono quelli non intenzionali, che generiamo non pensandoci, o volendo esattamente l’opposto di quanto finisce poi per accadere. La radice di questa distanza tra intenzioni e risultati sta nella impossibilità di controllare i processi cui diamo vita, che sono più complessi e liberi della nostra capacità di dominarli. Ogni nostro atto è un seme che fiorisce, cresce e muore secondo leggi che ci sfuggono. Se i risultati di quanto facciamo nascere fossero tutti inscritti nella nostra volontà e intelligenza e da queste catturati, il mondo sarebbe un luogo troppo triste e povero in cui vivere, ci perderemmo le sorprese più grandi "sotto il sole". La vita vera è libertà, non segue le regole che noi le imprimiamo, non si lascia ingabbiare dalla nostra volontà di dominarla.
Gli effetti non intenzionali delle nostre azioni sono sempre importanti, ma sono decisivi nelle organizzazioni a movente ideale e con comunità e movimenti nati da carismi o da valori spirituali. Qui molto spesso gli esiti più felici nascono da eventi casuali non previsti né cercati, e quelli peggiori sono il risultato di scelte e regole originate dall’intenzione ottima di assicurare sviluppo e successo futuri. Dove l’eccedenza degli effetti delle azioni sulle loro intenzioni è particolarmente importante, è nel rapporto reciproco tra i fondatori e le future generazioni. Chi dà vita una organizzazione o comunità ideale, a un certo punto avverte forte il bisogno profondo di scrivere una "regola". Questa regola svolge diverse funzioni. È una carta d’identità di quella comunità nuova e unica, con foto e generalità. Ma è anche una costituzione che contiene le regole di governance affinché la gestione delle relazioni tra i suoi membri sia coerente con la specificità del carisma, perché il "vino nuovo" trovi "nuovi otri" capaci di contenerlo e farlo maturare. Il primo scopo di ogni buona regola è assicurare la fedeltà al carisma da parte di chi verrà dopo. Ed è proprio attorno a questa grande parola, fedeltà, che si gioca molto, quasi tutto, della qualità ideale, umana, comunitaria e spirituale della vita delle future generazioni.
Nella vita, in ogni vita, la fedeltà è quasi tutto. È fiducia, è alleanza, è patto nuziale, come dice anche il nome portoghese dell’anello nuziale – aliança – che in italiano chiamiamo fede. E come in ogni fede, la fedeltà è un cammino libero dietro la voce che un giorno ci ha chiamato verso una terra promessa e una grande liberazione. È un esodo, un pellegrinaggio verso un monte più alto di noi, sconosciuto e misterioso, un luogo di rigenerazione e di salvezza personale e collettiva. È un andare cui non segue mai un semplice tornare, perché la casa che ci attende al ritorno è sempre nuova e diversa. Ogni volta non la riconosciamo, dobbiamo reimparare a rivederla e risentirla dentro un’anima che cambia per sempre dopo ogni viaggio; che cresce con il cammino, fino, un giorno, a coincidere col tutta la terra e tutto il cielo. La casa che custodisce e accudisce una alleanza vera e grande cambia mille volte nel corso della vita, e se non diventa troppo grande finisce sempre per essere troppo piccola. Nessuna casa nata da una chiamata coincide con la misura del nostro cuore, anche se è sempre forte la tentazione di abbassare il tetto e rimpicciolire le stanze per abitarla comodamente.
La fedeltà non è un processo semplice, neanche quella fedeltà originaria a noi stessi, che tutti cerchiamo e che ci sfugge, perché il giorno che dovessimo raggiungerla sarebbe solo l’inizio del "grande tradimento". Siamo fedeli a noi stessi finché, con una energia morale che ci era sconosciuta, riusciamo a tornare a casa dopo l’ennesimo tradimento, e finché teniamo l’uscio aperto per accogliere gli ospiti sempre nuovi che vengono a visitarci e onorarci, senza che il dolore per aver fatto entrare qualche persona sbagliata chiuda per sempre la porta del cuore. Anche la fedeltà al fondatore e al carisma è molto delicata, è un cammino in un bosco meraviglioso, ma pieno di pericoli e di insidie. Le prime insidie sono quelle che lo stesso fondatore dissemina lungo la strada, anche se nel costruirle è mosso soltanto dalla volontà di bene, dalla certezza morale di star creando le condizioni per salvare il futuro. Per la inevitabile e necessaria paura che la tradizione del carisma si trasformi in tradimento, i fondatori quasi sempre finiscono per inserire nella loro regola dei dispositivi di protezione che si trasformano in trappole. Fanno qualcosa di simile a quelle mogli o quei mariti che per timore di essere traditi danno vita a un sistema di controllo della vita dell’altro che uccide la libertà reciproca e presto anche la coppia, che vive e cresce finché resta reale e concreta l’opzione del tradimento che liberamente viene ogni volta scartata. L’unica gestione buona della naturale paura dei tradimenti sta nell’accogliere l’assoluta vulnerabilità di ogni vera fedeltà. La costruzione di una fedeltà invulnerabile è il primo tradimento di ogni alleanza, anche se è un tradimento non voluto né pensato. Non sappiamo di essere fedeli finché non ci troviamo sulla soglia della porta sbagliata e scopriamo di poter ancora tornare a casa. Blindare una regola per proteggerla da futuri possibili abusi è la strada sicura verso la sterilità spirituale della comunità. Ogni vulnus (ferita) è anche una fessura e la possibilità di fecondità. Una buona alleanza comunitaria inizia con una regola che non ha paura della vulnerabilità e dell’esposizione all’abuso della fiducia e della fede.
Ma anche quando il fondatore ha scritto buone regole coraggiose e quindi vulnerabili, non più semplice è la parte che devono svolgere le future generazioni, perché non sono minori le trappole che esse stesse costruiscono lungo la loro strada. Una molto comune sta nell’interpretazione del verbo ricordare. Nel Vangelo troviamo uno stupendo passaggio che dovrebbe ispirare il comportamento di ogni comunità nella gestione della fedeltà. Nel suo ultimo discorso ai discepoli dopo la resurrezione, Gesù dice: «Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il paraclito, lo Spirito ... vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto» (Giovanni 14, 25-26). Nel tempo dopo i fondatori è lo Spirito che svolge tre funzioni fondamentali: è paraclito, insegna e ricorda. Lo Spirito è il Paraclito, cioè l’avvocato, il difensore, colui che sta dalla nostra parte, ci protegge e ci salva. È poi colui che ci insegna "ogni cosa": il maestro dell’età che segue il fondatore è lo Spirito, è il carisma stesso. Questo insegnamento si compie tramite l’esercizio di una particolare dimensione della memoria. Ricordare è qui un’operazione fondamentale, perché non è un atto mnemonico, ma un evento spirituale essenziale per comprendere nel tempo presente lo spirito delle parole antiche, oltre la loro lettera. Il ricordare le parole fondative è allora un processo complesso e plurale, che conosce più protagonisti distinti e coessenziali: le prime parole storiche, lo Spirito e una comunità capace di ricordare nello Spirito. L’errore più comune è confondere il ricordare nello Spirito con la ricostruzione esatta delle parole pronunciate. E così le comunità si bloccano in nome di una fedeltà assoluta alle parole che fa smarrire il loro Spirito, che è difesa e creatività. La perfetta e totale fedeltà diventa tradimento totale e assoluto. In queste fedeltà del ricordo spirituale aiutano poco i documenti che hanno registrato le ipsissima verba dei fondatori, che finiscono invece con l’impedire il buon ricordo operato dal Paraclito. Nel libro di Giobbe (capitolo 19) il Paraclito è invocato da Giobbe perché lo difenda da Elohim che lo aveva ingiustamente condannato. Lo spirito difende le comunità dal loro fondatore, perché consente di ricordare soltanto quelle parole e quei fatti che fanno vivere qui ed ora.
Non tutte le parole devono essere ricordate nello Spirito. Le eresie nascono spesso da parole effettivamente pronunciate da un fondatore, ma non ricordate nello spirito. Ogni buon ricordare è sempre parziale, perché la vita e la salvezza stanno nel ricordare le poche parole che solo un saggio e rischioso processo comunitario può generare. È creazione di parole vive e incarnate, non è mai un nostalgico ricordare gli eventi passati. È rivivere lo stesso miracolo dell’inizio con parole tutte antiche e tutte nuove. Le comunità vive e feconde sono quelle dove ogni generazione ha osato decidere quali parole ricordare e quali lasciare riposare in attesa del tempo propizio del ricordo. Quando invece manca questo lavoro di ricordo parziale – che confina sempre con la regione del tradimento e qualche volta l’attraversa –, le ottime intenzioni di fedeltà incondizionale generano inintenzionalmente il risultato peggiore. I Vangeli non sono una cronaca di tutte le parole di Gesù, ma solo di quelle poche ricordate nello Spirito. Ogni carisma vive finché la comunità non pretende di ricordare tutte le parole dei fondatori, e si prende tutti i rischi del ricordo spirituale parziale, anche quando i fondatori avevano raccomandato loro il ricordo totale. Le parole di vita sono poche. È questo il bel paradosso di ogni tradizione e di ogni fedeltà. Non c’è tradimento più grande di quello di un figlio che decide di aderire perfettamente ai progetti dei suoi genitori. Non c’è incontro più banale di quello che soddisfa perfettamente le nostre aspettative, né lavoratore peggiore di chi esegue perfettamente le prescrizioni del contratto di lavoro. La vita adulta più sfiorita è quella che realizza soltanto i progetti della giovinezza.l.bruni@lumsa.it
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