I poveri non sono maledetti
sabato 15 dicembre 2018

E forse pace avremo
quando tutto sarà perduto
e inutili sentiremo le parole
e questi incontri che ci illudono.
...
Allora l’angoscia sarà
d’avere scoperto – troppo tardi –
questa smarrita esistenza ...


David Maria Turoldo, O sensi miei

Le vigilie segnano il ritmo delle feste e della loro attesa. È il tempo nel quale il giorno diverso si prepara e matura, quando si forma e cresce il desiderio. I bambini sono i grandi esperti delle vigilie - dei compleanni, del primo giorno di scuola, della gita. Loro sanno che nel "villaggio" il sabato è un giorno bello perché sarà seguito da un giorno ancora più bello. Perché sanno che le feste sono vere, che non sono soltanto l’illusione di un desiderio strozzato nel momento in cui si compie, perché veri sono i genitori, i maestri, i compagni, perché sono veri i doni. È la verità della festa che rende veri il desiderio e l’attesa nella sua vigilia. Una innovazione del nostro tempo è l’invenzione di vigilie senza festa, perché nell’era delle feste scandite dal business ci restano solo le vigilie. Non sapendo, collettivamente, chi e che cosa festeggeremo veramente, restiamo in una successione continua di "sabati del villaggio". Alla vigilia di Natale seguirà la vigilia dei saldi, e poi quella di san Valentino, e così via per tutto l’anno, dove nuove vigilie ci faranno dimenticare la tristezza della festa negata. E l’anno volerà via velocissimo, perché derubato del tempo diverso della festa, che starebbe lì per farci gustare un boccone di eternità - anche se vivremo più anni dei nostri nonni, stiamo vivendo giorni molto più brevi dei loro.

Se qualcuno vuole ritrovare il senso della festa e della vigilia (e occorre farlo presto, perché una cultura che non conosce la verità del "dì di festa" non conosce la verità della vita e della morte), deve cercarlo tra i poveri, perché è lì dove la festa continua a vivere insieme alla sua attesa non-vana. Prima però dovremmo riappropriarci del senso della povertà e dei poveri, e liberarli dalle nostre maledizioni. E, anche qui, i migliori maestri saranno i profeti.
«Allora mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, gli abitanti di Gerusalemme vanno dicendo ai tuoi fratelli, ai deportati con te, a tutta la casa d’Israele: voi andate pure lontano dal Signore: a noi è stata data in possesso questa terra"» (Ezechiele 11,14-15). Il popolo scampato alla prima deportazione babilonese, leggeva l’esilio dei propri connazionali come maledizione di Dio. La lontananza dalla patria e dal tempio santo era vista come punizione divina, come conseguenza dei loro peccati. La superbia religiosa alimentava la falsa sicurezza di essere la parte eletta, i veri proprietari della terra, e così i deportati dai babilonesi diventavano i deportati da YHWH. Nella storia delle civiltà è stato sempre quasi invincibile il bisogno di trovare una giustificazione sovrannaturale alle sventure proprie e, soprattutto, a quelle degli altri. Quella più comune, perché quella più semplice, l’offriva la logica economica: chi oggi soffre sta pagando un debito per qualche colpa maturata ieri, e chi gioisce sta raccogliendo i frutti dei suoi meriti. I ricchi si ritrovavano così in un doppio paradiso (quello della terra e quello del cielo), e i poveri vivevano in un doppio inferno, imprigionati dentro una perfetta trappola a tenaglia, senza speranza di liberazione. Le meritocrazie hanno sempre avuto bisogno (e lo hanno ancora) di poveri meritevoli della loro sventura, di uno sgabello su cui gli eletti potessero poggiare il piede per salire nel loro cielo.

I profeti, per vocazione, mettono in crisi queste facili e banali religioni del merito e della colpa, e ci svelano un’altra logica, ci mostrano un’altra idea di povertà e di giustizia: «Dice il Signore Dio: "Se li ho mandati lontano fra le nazioni, se li ho dispersi in terre straniere, nelle terre dove sono andati io sono diventato il loro santuario"» (11,16). Anche Geremia, fratello e maestro di Ezechiele, lo aveva profetizzato: il cesto di fichi buoni non è quello rimasto in patria ma quello deportato in Babilonia (Geremia 24,1-2). La profezia racconta un’altra teologia, e quando questa manca restiamo prigionieri di schemi ideologici che hanno come unico scopo la giustificazione della nostra condizione di salvati e della nostra indifferenza.
Questa dinamica si ripete spesso anche nelle comunità ideali e spirituali. Una parte, qualcuno, si ritrova esiliato, deportato in terre straniere, trascinato da qualche impero o demone rivelatisi troppo forti per opporre resistenza. Chi resta a casa sente il bisogno di dare una lettura religiosa all’uscita degli altri e al proprio restare; e così per sentirsi rassicurato e fedele finisce, qualche volta in buona fede, per condannare chi è uscito. Si separa moralmente da essi, li lascia sui loro mucchi di letame, e poi cerca, come gli "amici" di Giobbe, di convincersi e convincere che dietro quella sventura ci debba essere qualche colpa rimasta nascosta. Il profeta, invece, continua il canto di Giobbe, e ripete ai deportati, a chi è rimasto a casa, a noi: "Sono innocente, e se in questa storia c’è un colpevole va trovato nella vostra idea sbagliata di Dio e quindi della vita". I profeti danno voce alla parte maledetta del mondo, e ci ricordano che se c’è un Dio vero questo va cercato prima di tutto nei mucchi di letame, nei campi dei deportati, tra gli esiliati, tra gli scartati e i maledetti. È lì che attende, e qualche volta ci incontra, magari dopo averlo cercato e non averlo trovato nei luoghi dove pensavamo fosse, e quando avevamo perso ogni speranza (le esperienze spirituali meravigliose sono quelle che arrivano quando eravamo certi che non sarebbe arrivato più nulla).

Ma Ezechiele ci dice qualcosa di ancora più forte e rivoluzionario: YHWH promette ai deportati che sarà per loro "un santuario". In una cultura religiosa antica dove la protezione degli dèi era limitata al territorio nazionale, e dove l’uscita dalla terra significava uscita dall’area di azione della divinità, Ezechiele non dice soltanto che YHWH è vivo e opera anche in esilio, ma che sarà la sua presenza a sostituire il santuario che non hanno più. La condizione oggettiva dell’esilio, la mancanza del tempio e di molte dimensioni del culto religioso, consentì a quel "resto" scartato di operare un salto qualitativo nella fede. Intuirono, grazie ai profeti, che Dio non poteva essere confinato in un luogo, che non abita solo i luoghi sacri, perché la sua casa era la terra intera non solo la terra promessa. Dio è più grande del culto religioso con il quale lo veneriamo. È diverso e più grande dei nostri sacrifici, delle nostre liturgie, perché è un Dio laico (che vive in mezzo al popolo). Un messaggio immenso ancora oggi, ma straordinario in quel popolo dal tempio diverso e unico. "Sarò io il tuo santuario": quante volte persone scartate, comunità esiliate, hanno sentito risuonare vera nella loro anima questa splendida promessa; e lì, in mezzo a divinità straniere, smarriti e disperati, hanno capito che nulla mancava, che non erano maledetti né abbandonati, ma che erano stati condotti nel deserto per celebrare una nuova alleanza, una nuova festa, una nuova Pasqua. E il cielo si apriva, scendevano gli Elohim e iniziava il paradiso dentro gli inferni.

L'esilio di Israele fu un ritorno alla tenda mobile dell’arameo errante, al Dio nomade come il suo popolo, che spostandosi può farsi compagno di strada di ogni uomo e donna della terra, di tutti "quelli della via". Le grandi crisi diventano ogni tanto epifanie di una spiritualità più vera, di una religione più alta del tetto dei templi, ritorni alla povertà della tenda, e lì ascoltare parole diverse e infinite. Come accadde in quella prigione tedesca alla fine della seconda guerra mondiale, quando un profeta del nostro tempo, pochi giorni prima di essere fucilato per aver seguito la voce fino alla fine, fu capace di scrivere alcune parole più grandi della sua teologia, generate dall’abisso del suo esilio: «Il "cristianesimo" è stato sempre una forma (forse la vera forma) della "religione". Ma se un giorno (...) gli uomini diventano davvero radicalmente non religiosi che cosa significa allora tutto questo per il "cristianesimo"? Vengono scalzate le fondamenta dell’intero nostro "cristianesimo" qual è stato finora, e noi "religiosamente" potremo raggiungere soltanto qualche "cavaliere solitario" o qualche persona intellettualmente disonesta? Dovrebbero essere questi i pochi eletti? Dovremmo gettarci zelanti, stizziti o sdegnati proprio su questo equivoco gruppo di persone per smerciar loro la nostra mercanzia? (...) Come può Cristo diventare il Signore anche dei non-religiosi? Se la religione è solo una veste del cristianesimo che cos’è allora un cristianesimo non-religioso?» (D. Bonhoeffer, "Resistenza e resa"). Dentro queste parole, che ci lasciano ancora senza fiato per la loro forza profetica, ci sono anche Geremia, Ezechiele e tutta la Bibbia, la cui profonda meditazione aveva accompagnato e nutrito Bonhoeffer prima e durante la prigionia.

Anche noi possiamo guardare la condizione dei tanti esiliati senza tempio, dispersi in terre dagli dèi diversi, e condannarli come maledetti, colpevoli e meritevoli della loro condizione di senza Dio - che cosa è il nostro tempo se non un grande esilio di massa dal tempio? Ma possiamo anche ripetere le parole di Ezechiele. Possiamo e dobbiamo dire se vogliamo stare dalla parte degli abitanti di Gerusalemme e condannare gli esiliati, o con i profeti e raccontare una storia diversa, quella che vede nel nostro grande esilio una "presenza" oltre il tempio. Possiamo maledire il nostro mondo, ma possiamo anche annunciargli una salvezza. Le religioni e le comunità possono essere amiche dei poveri, lo sono state molte volte e lo sono ancora quando sanno dismettere i vestiti meritocratici disegnati dagli uomini e poi appiccicati alle divinità senza chiedere loro il permesso.
I profeti continuano a essere custodi dell’uomo e custodi di Dio. Noi, testardi, tentiamo ogni giorno di manipolare Dio e gli uomini; e i profeti, più testardi di noi, continuano a custodirli.

l.bruni@lumsa.it

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