«Quando portò al capezzale di Geremia la bevanda pronta, egli respirava tranquillamente nel sonno. "Poiché non mi è lecito nasconderlo al mondo, come potrei nasconderlo a te madre?" … "Che cosa nascondere?" (…). "Il Signore è stato presso di me... E la sua voce mi ha parlato. E la sua voce mi manda via di qui". Gli occhi di Abi si riempirono di lacrime. Non piangeva perché il Signore era venuto a lui. Non doveva essere fiera fra tutte le donne di Giacobbe? E tuttavia il cuore di Abi di spezzava di dolore per l’elezione del figlio»
Franz Werfel, Ascoltare la voce
C'è un conflitto, una tensione radicale, tra i profeti e il potere. Per molte ragioni, ma soprattutto perché il profeta, per compito e vocazione, sa vedere la naturale tendenza di ogni potere, in primis di quello rivestito di una veste sacrale, a pervertirsi e trasformarsi in tirannia. Lo vede, lo dice, lo grida. Sa che i potenti sono inconvertibili, che l’unica azione positiva nei loro confronti è la denuncia, la critica, lo smascheramento delle loro reali intenzioni al di là delle parole belle e ruffiane. La profezia "ama" il potere criticandolo duramente, gridando la sua naturale corruzione, non convertendosi alle sue ragioni, restando salda nel suo posto di vedetta. I "buoni" re e i "buoni" capi sono coloro che sanno stare sotto i colpi della critica spietata dei profeti, che non cercano di comprarli per convertirli alle loro ragioni. Quando i profeti scompaiono o diventano falsi-profeti, la natura corrotta del potere diventa perfetta, i governi si trasformano in imperi, e noi in schiavi.
«Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Va’ e grida agli orecchi di Gerusalemme: Così dice il Signore: Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata"». (Geremia 2,1-2). Geremia, cresciuto all’ascolto dei racconti delle tribù del Nord, è profondamente legato alla tradizione dell’Alleanza, ha molto vivo il ricordo dei giorni del primo amore: «Israele era cosa sacra al Signore, la primizia del suo raccolto» (2,3). Per quella prima Alleanza, per quel primo e sempre attuale patto nuziale (Osea), YHWH aveva dato in dote al suo popolo una terra, lo aveva liberato dall’Egitto: «Ci guidò nel deserto, per una terra di steppe e di frane, per una terra arida e tenebrosa, per una terra che nessuno attraversa» (2,6). Geremia grida contro i capi del suo popolo perché Israele ha unilateralmente spezzato il patto: «Quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri, per allontanarsi da me?» (2,5).
Un tradimento totale, una infedeltà generale: «I sacerdoti non si domandarono: "Dov’è YHWH?". I detentori della legge non mi hanno conosciuto, i pastori mi si sono ribellati, i profeti hanno predetto nel nome di Baal e hanno seguìto esseri inutili» (2,8-9). La ribellione ha coinvolto i tre assi su cui si regge la vita del popolo. Importante il riferimento alla corruzione dei profeti, che sono passati al servizio del dio Baal, un elemento che ci svela un’altra dimensione della funzione profetica. La profezia non è esclusiva di Israele, e i profeti sanno riconoscere lo stesso soffio in persone di altri popoli, sanno riconoscersi tra di loro. Il peccato commesso dai profeti denunciati da Geremia è stato trasformarsi in profeti di Baal. Sono profeti che hanno cambiato dio.
Non esiste, forse, perversione spirituale più grande di quella del profeta che inizia a profetizzare in nome di un altro dio. Si può smettere di essere profeti per molte ragioni – pochi profeti restano veri profeti per tutta la vita. Perché qualche volta il compito profetico è temporaneo e dura il tempo del compito da svolgere; perché non riescono più ad ascoltare la voce, e quindi non hanno più nulla da dire (qualche volta la voce scompare davvero, altre volte è il profeta che perde la capacità di udirla); o perché il profeta non riesce a resistere al dolore che gli procura la propria vocazione, e sceglie di ritirarsi a vita privata. Queste conclusioni di storie profetiche sono possibili, molto comuni, e qualche volta buone. La fine del profeta che cambia dio è invece sempre pessima. Perché la vocazione profetica è l’incontro tra due voci personali: una che chiama per nome e l’altra che risponde al nome che lo chiama. Il profeta non falso conosce e riconosce quella voce unica, la sa distinguere tra le molte voci della vita. Quando – per denaro, per potere, per piacere, per perversione... – inizia a parlare in nome di un altro dio, diventa automaticamente falso profeta, perché non parla in nome di nessuna voce. I profeti sono inconvertibili ad altri dèi, perché sono essenzialmente-ontologicamente legati alla prima voce personale, a una parola, a una sola lingua dello spirito.
L'impossibilità del cambiamento della voce profetica è di portata universale, e vale anche quando il profeta non chiama "Dio" la voce che lo abita, o, come Etty Hillesum, la chiama, semplicemente e magnificamente, «la parte più profonda di me». Vale nell’arte, nella poesia, ma anche per chi si mette alla sequela dei grandi ideali umani. Il poeta sa che la sua vocazione è legata a una sola specifica voce che lo ha chiamato e che lo richiama dentro ogni giorno. E sa che se perde il rapporto con quella voce perde la propria vocazione e si smarrisce. Ma, nonostante ciò, qualche volta decide di profetizzare per altri "dèi" (quasi sempre il denaro e il potere). Sa che sta diventando profeta inutile del nulla, ma lo fa lo stesso: «Io amo gli stranieri, voglio andare con loro» (2,25). Questi fenomeni li ritroviamo anche nelle esperienze comunitarie, quando le vocazioni si raccolgono attorno a carismi collettivi, dove nei momenti di crisi molto forte è la tentazione di iniziare a profetizzare in nome di altri "dèi" e di riempire i propri templi con altre divinità vicine, e così smarrirsi e perdere la propria anima. Questi smarrimenti sono inevitabili nell’arco storico dello sviluppo di una comunità carismatica, che può salvarsi se almeno un profeta resta fedele e non smette di gridare le parole suggeritegli dalla voce vera. Sono inevitabili perché arriva puntuale il momento in cui il proprio "dio", se è vero, appare troppo difficile, diverso, più scomodo di quello dei popoli vicini. L’idolatria in Israele è sempre arrivata come risposta alla domanda del popolo di avere finalmente un dio come tutti gli altri: visibile, pronunciabile, toccabili, facile: «Dicono a un pezzo di legno: "Sei tu mio padre", e a una pietra: "Tu mi hai generato"» (2,27).
È questa la radice di ogni conversione idolatrica: l’incapacità di restare in una condizione spirituale imperfetta e non pienamente soddisfacente, e così trasformare Dio in un bene di consumo che risponde pienamente alle nostre preferenze religiose. Quando Dio o un ideale finisce per coincidere con la nostra idea di Dio o dell’ideale, siamo già dentro un culto idolatrico: la verità di ogni fede si trova nello scarto tra i nostri gusti e la nostra esperienza, uno scarto che è lo spazio dove possiamo ascoltare la sottile voce del silenzio della verità. Il profeta vero che diventa falso perché cambia "voce" è molto più pericoloso del falso profeta che è tale fin dall’inizio, ed è molto maggiore anche la sua infelicità. La nostalgia per la prima voce buona non lo lascia mai, e l’accompagna fedele, come spina nella carne, nelle sue peregrinazioni mercenarie: «Su ogni colle elevato e sotto ogni albero verde ti sei prostituita» (2,20). Si può ritornare alla prima voce, ma molto rari sono questi movimenti di ritorno.
Geremia, poi, è molto lucido e deciso nell’individuare la ragione dell’infedeltà: il popolo ha tradito il suo patto nuziale «per correre dietro al nulla, e diventare loro stessi nullità» (2,5). È forte e significativo il nome che il profeta dà agli idoli: nulla, vento, soffio, fumo. Usa la stessa parola diventata celebre grazie a Qohelet, hevel: vanità. Il nulla degli idoli, però, è un nulla radicalmente diverso dal nulla di Qohelet. La vanitas di Qohelet emerge sullo sfondo di un mondo svuotato dagli idoli, da una stanza liberata dalla vanitas dell’illusione. È un nulla liberatorio e vero, che dice la caducità e l’effimero della condizione umana. È un nulla pieno, come veri, pieni e liberatori sono i canti di Leopardi, o alcune pagine luminose di Nietzsche, dove il nulla appare oltre il "crepuscolo degli idoli", come epifania di una verità assente nella vanitas illusoria dei totem manufatti.
Molta parte del cammino spirituale di una intera esistenza consiste nel liberarsi da un nulla sbagliato che appariva vero per approdare a un altro nulla radicalmente diverso. Qualche volta questo secondo nulla è l’aurora di un nuovo viaggio in cerca di una nuova verità; altre volte, il secondo nulla rimane fino alla fine: si espande, si approfondisce, cresce con noi, e ci consente di generare frutti buoni e saporiti, che sono molto simili, se non identici, a quelli che si trovano al termine della terza navigazione. Ci sono molte uomini e donne alimentati per decenni da questo secondo nulla vero, accettato, accolto e amato come la buona condizione umana oltre l’illusione consolatoria del primo nulla. Non si inizia il terzo viaggio senza essersi liberati dal primo nulla e approdare alla verità del secondo nulla: la tappa del secondo nulla è inevitabile. Molti cammini spirituali e quindi umani restano bloccati al primo nulla illusorio per la paura di affrontare il secondo nulla col suo paesaggio desertico e clima arido, e così restano servi e schiavi del nulla: «Israele è forse uno schiavo, o è nato servo in casa?» (2,14).
Sulla terra molto numerosi sono i falsi profeti del primo nulla. Ci sono anche, rarissimi, i profeti della terza navigazione. Ma accanto ad essi e loro grandi amici si possono riconoscere i profeti del secondo nulla, che nel loro deserto spopolato sono abitati e nutriti soltanto dalla voce – e non manca nulla. Il secondo nulla non è ancora la terra promessa, ma è già una terra oltre il mare della schiavitù, che qualche volta si estende fino alle pendici del monte Nebo, dove possiamo addormentarci, insieme a Mosè, scorgendo Canaan sulla linea dell’orizzonte.
l.bruni@lumsa.it