Il profeta non si interessa ai misteri del cielo ma agli affari del mercato; non alle realtà spirituali dell’aldilà ma alla vita del popolo; non alle glorie dell’eternità ma alle rovine della società
Abraham Heschel, Il messaggio dei profeti
Che la ricchezza sia ambivalente è una verità della vita. È anche una verità della Bibbia, dove i denari li troviamo nella parabola del buon samaritano e nel tradimento di Giuda, dove l’oro del popolo fu usato per costruire l’arca dell’alleanza e per fabbricare il vitello d’oro. Gli stessi denari, lo stesso oro: due sensi opposti. Nella Bibbia e nella vita, dove la ricchezza è usata ogni giorno per liberare poveri e per crearne di nuovi, dove i denari costruiscono arche di salvezze e mandrie di vitelli aurei. Ma se la Bibbia ha voluto mettere la costruzione dell’arca dell’alleanza (Es 25) prima della fabbricazione del vitello d’oro (Es 32), e l’Arca di Noè (Gen 6) prima della Torre di Babele (Gen 11), forse ci vuole dire che gli usi buoni della ricchezza vengono prima di quelli sbagliati – e se vengono prima possono essere più veri e profondi.
Il vitello d’oro è l’immagine per eccellenza dell’idolatria nell’umanesimo biblico e cristiano. La ritroviamo in diversi libri, fino al Nuovo Testamento (At 7), perché dice qualcosa di importante, forse essenziale. La troviamo anche in Osea: «Con il loro argento e il loro oro si sono fatti idoli, ma per loro rovina. Ripudio il tuo vitello, o Samaria!» (Osea 8,4-5). Qui il profeta si riferisce alla tradizione dei due vitelli (o tori) d’oro che Geroboamo, re d’Israele, fece collocare nei due santuari di Dan e a Betel, come ci viene narrato nel primo libro dei Re (cap. 12).
In realtà, sono molte e complicate le questioni bibliche che si concentrano attorno al vitello aureo. Dobbiamo provare ad andare oltre la sua pessima reputazione, e guardare anche all’archeologia. Dagli scavi oggi sappiamo che l’utilizzo di animali come piedistallo o seggio su cui poggiare la statua della divinità era prassi comune nella regione medio-orientale. I cananei adoravano Baal sopra una base di toro, Astarte su un piedistallo di leone o Marduk sopra un drago, e mentre vedevano le due statue dell’animale e del dio l’una sull’altra, non era per loro difficile distinguere il dio dal suo animale sacro. Stavano entrambi lì, uno sopra all’altro. Per loro non era difficile la distinzione tra il dio e il suo sgabello, tra la statua della divinità e il suo scranno.
Le tribù d’Israele provenivano da quegli stessi popoli, quindi è normale che all’inizio condivisero le stesse divinità, prima che si affermasse il culto di YHWH come il Dio unico. Per questa ragione, anche se non abbiamo prove, non è da escludere che per alcuni secoli anche Israele possa aver utilizzato quegli sgabelli-animali anche per il suo Dio diverso. Probabilmente non era una pratica incoraggiata dai sacerdoti, ma resisteva nei santuari e nelle case private. Ad esempio, non ci sono tracce di critiche ai vitelli di Dan e Betel nelle tradizioni su Elia ed Eliseo, che vissero prima di Osea quando i tori erano già stati collocati nei santuari. Forse per qualche tempo gli animali vitelli svolgevano una funzione simile (non identica) all’arca dell’alleanza, formata da un propiziatorio con alle estremità due cherubini aurei (Es 24,17-22). L’Arca non era considerata un idolo, era un segno, un "sacramento" del Dio-YHWH-Elohim che restava invisibile e irrappresentabile. Anche il velo del tempio era ornato con cherubini (Es 26,31).
Ma più YHWH cominciò a distinguersi dalle antiche divinità cananee, più la profezia rivelava al popolo dimensioni nuove e non-naturali del loro Dio diverso, più diventava difficile tollerare vitelli e tori (Es 20,4-6; Dt 5,8-10). È all’interno di questo processo che va letta anche la polemica contro il vitello d’oro e in generale gli idoli.
È infatti probabile che l’origine del divieto biblico di immagine sia il punto di arrivo di un complesso processo di natura teologica e antropologica. Da una parte gli ebrei, grazie soprattutto ai profeti, e tra questi essenziale fu Osea, iniziarono progressivamente a capire che gli dèi rappresentati dai popoli cananei non potevano essere cose serie, che il Dio vero non poteva avere nulla a che fare con quei manufatti morti di legno. Conoscendolo compresero che YHWH era troppo più alto di quei pupazzi bassi, che era "soltanto un voce", spirito e soffio (ruah) non imprigionabile dentro nessuna forma plastica. Al tempo stesso, cresceva la convinzione teologica che il loro era il solo Dio vivo e vero e quindi tutti gli altri dèi vicini non erano veri, erano dèi falsi, erano dunque degli idoli. Questa duplice maturazione religiosa portò Israele a persuadersi che bloccare Dio in una statua o immagine significava farlo diventare un idolo al pari degli altri. A tutto ciò si aggiunse poi un terzo elemento antropologico: l’unica immagine lecita di Dio è l’Adam (Gen 1,27), e se permettiamo a Dio di identificarsi in un pezzo di legno colorato o con una statua, stiamo svilendo e diminuendo la dignità umana, la nostra natura di «poco inferiore agli Elohim» (Salmo 8), che diventerebbe immagine di un ceppo o di un toro.
In questo lento, complicato e altalenante processo, un ruolo decisivo fu svolto, in Israele, dall’assenza dell’immagine del loro Dio sopra il toro aureo. Il divieto di rappresentare Dio creò l’inedito di sgabelli senza statue. E così, diversamente dagli altri popoli, se Israele avesse continuato a permettere la presenza degli animali-sgabelli nei suoi santuari, sugli altari sarebbe restato il solo vitello d’oro a sostenere una sedia vuota. Non deve allora stupire che al tempo di Osea (VIII secolo a.C.) il popolo confondesse YHWH con il vitello, come testimonia anche il racconto (scritto successivamente) dell’episodio dell’Esodo, quando davanti al vitello d’oro gli israeliti dicevano: «Ecco il tuo Dio, Israele, ecco Colui che ci ha liberato dall’Egitto» (Es 32,4). Ecco il tuo Dio, ecco dunque YHWH: il popolo aveva ormai dimenticato che il toro era solo il piedistallo di un Dio invisibile, e il toro era diventato YHWH. Il profeta allora si scaglia, nuovo Mosè, contro il vitello e lo distrugge, perché lo sgabello da segno indicante era diventato la realtà indicata.
E qui si apre un discorso davvero importante. Questa genesi dell’idolatria è particolarmente pericolosa e probabile nelle religioni con un Dio complesso e astratto. Per i cananei il toro era l’animale sacro di Baal ma il toro non era Baal: era solo la sua sedia. Il dio stava sopra e il toro sotto, il dio sedeva sull’animale, una gerarchia spaziale che esprimeva l’ordine ontologico e religioso del culto. Ecco perché in quelle religioni naturali non c’è la malattia idolatrica: erano idolatri per gli ebrei, ma non per loro stessi né per i loro profeti. In questi popoli con divinità semplici, visibili e raffigurabili ci può essere apostasia, possono lasciare un dio per un altro, ma la trasformazione dell’animale-piedistallo in dio è, teologicamente, molto difficile se non impossibile.
È l’assenza della statua della divinità adorata che rende probabile la metamorfosi idolatrica. Per questa ragione la troviamo in Israele, dove c’erano le condizioni teologiche per trasformare il loro Dio difficile e diverso in un dio più facile, in un dio-come-tutti.
Qualcosa di analogo accade anche nelle comunità spirituali, nelle organizzazioni ideali o carismatiche. Se una associazione o una congregazione è, per così dire, semplice, nasce cioè per svolgere semplicemente un’attività assistenziale, religiosa o educativa, fondata da una o più persone per questo specifico scopo, è probabile che la distinzione tra l’ideale (mission) e le persone dei suoi fondatori sia ben chiara e stabile. Quando invece abbiamo a che fare con movimenti spirituali complessi e con fondatori molto carismatici, dove quindi la mission non è univoca né semplice (ad esempio rievangelizzare il mondo), di fronte all’invisibilità e altezza dell’ideale, che resta invisibile perché troppo complesso e diverso per essere rappresentato, può succedere che il popolo non regga a lungo il "culto" del piedistallo-senza-statua e, in buona fede, importi nel proprio pantheon un dio straniero più semplice, oppure col tempo finisca per trasformare il fondatore (il piedistallo) nell’immagine dell’ideale. Più alto è il messaggio che un profeta ci annuncia più è facile farlo diventare un idolo – non è da escludere che la morte di Mosè sul monte Nebo e la sua uscita dalla Bibbia sia stato un tentativo per evitare che "il profeta più grande di tutti" diventasse un idolo.
È questo un errore molto comune, che si verifica quando in carismi alti e astratti i fondatori da cherubini dell’arca si trasformano, progressivamente, nel vitello d’oro. In questi casi i profeti distruggono l’immagine diventata idolatrica, e ci si ritrova tutti, profeti inclusi, in un santuario vuoto, senza divinità e senza sgabelli. Un vuoto religioso e spirituale necessario, attivo e sofferto, durante il quale occorre combattere lo spirito di morte delle depressioni collettive, e ricominciare domani. E poi magari in un altro giorno recuperare il giusto posto dei fondatori. Nel mezzo di questo processo c’è il deserto e c’è l’esilio: Israele non avrebbe superato la fase del vitello d’oro senza Mosè (deserto) e senza i profeti dell’esilio: le "distruzioni" diventano "creatrici" se ad accompagnarci c’è almeno un profeta che ci insegna come usare l’oro fuso del vitello distrutto per farne cherubini e una nuova arca dell’alleanza.
Custodita nel cuore della distruzione idolatrica, troviamo un’altra perla di Osea, una delle frasi della Bibbia più popolari e sapienti, che ci raggiunge come dardo di fuoco dentro la nostra vita civile e politica: «Poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta» (8,7).
Infine, Osea riprende e sviluppa un tema a lui molto caro: la moltiplicazione dei culti, degli altari, dei santuari: «Èfraim ha moltiplicato gli altari, ma gli altari sono diventati per lui un’occasione di peccato» (8,11). Associata alla trasformazione idolatrica c’è in genere la proliferazione degli altari, non la loro riduzione; quando Dio diventa un dio semplice, quando perde la sua dimensione trascendente e ingestibile, perde altezza e si riduce a uno sgabello. Diventa così semplice riprodurlo, bastano due buoni scalpellini. La religione diventa tecnica, il "cosa è" (manna) diventa "come funziona", know-how. Gli altari si riempiono di manufatti sacri. E i profeti gridano, invano.
Da qui un messaggio importante: la moltiplicazione delle pratiche religiose non è di per sé segno di fede e di moralità; anzi, per i profeti è proprio la moltiplicazione dei culti e dei sacrifici il primo segnale di degrado etico e religioso: «Offrono sacrifici e ne mangiano le carni, ma il Signore non li gradisce» (8,13).
Chissà come i profeti biblici valuterebbero questo nostro tempo vuoto di altari e di santuari vuoti? Forse saprebbero dire parole diverse dalle nostre, parole anti-consolatorie, di speranza non vana.
l.bruni@lumsa.it