Essere più grandi del male
sabato 16 aprile 2022

Simone Weil: «L’agnello è in qualche modo sgozzato in cielo prima di esserlo sulla terra. Chi lo sgozza?». È la domanda ultima della cristianità - e non ha trovato risposta.
Roberto Calasso, Sotto gli occhi dell’Agnello

Il nostro tempo ama e cerca la felicità. E per questo non capisce la resurrezione, non capisce la Pasqua. Come reazione a generazioni passate che l’avevano collocata troppo nel cielo, dopo la morte e in quella dei figli, noi cerchiamo la felicità nostra, sulla terra e durante la vita. Si moltiplicano ormai scuole, professionisti, corsi che cercano di insegnarci tecniche per raggiungerla. Citano Aristotele, Buddha, qualcuno anche Cristo. Poi un giorno apriamo finalmente la Bibbia, cerchiamo tra le sue pagine la felicità e incontriamo solo un arameo errante, un liberatore di schiavi che non raggiunge la terra promessa, profeti non ascoltati e perseguitati, Giobbe che sul mucchio di letame non riceve da Dio le risposte che chiedeva, giovani che preferiscono morire pur di non perdere l’anima, un profeta diverso che promette la beatitudine nei luoghi della non-felicità (povertà, lacrime, persecuzioni…) e che termina la sua vita inchiodato a una croce, per poi incontrare, dentro un sepolcro, un’altra gioia inattesa, che non era per sé ma tutta e solo per gli altri, tutta e solo per noi.

«Daniele decise in cuor suo di non contaminarsi con le vivande del re e con il vino dei suoi banchetti e chiese al capo degli eunuchi di non obbligarlo a contaminarsi. Dio fece sì che Daniele incontrasse la benevolenza e la simpatia del capo degli eunuchi. Però egli disse a Daniele: "Io temo che il re, mio signore, che ha stabilito quello che dovete mangiare e bere, trovi le vostre facce più magre di quelle degli altri giovani della vostra età"» (Daniele 1,8-10). Daniele e i suoi compagni sono stati introdotti nella corte di Nabucodonosor per essere educati nella cultura babilonese. In un quadro che appariva finora tranquillo ecco la prima crisi: Daniele non vuol seguire la dieta di corte per non "contaminarsi".

Daniele ci viene subito presentato come capace di conquistarsi il favore del capo dei funzionari (eunuchi) del re, un alto dirigente di corte. Il testo ci dice che la "simpatia e la benevolenza" che Daniele trovò presso quell’uomo "sono dono di Dio". Daniele era un giovane piacevole e intelligente, ma perché scattino simpatia e benevolenza reciproci il talento naturale e l’impegno individuale non basta. C’è bisogno di un imponderabile, è necessario che nell’altro si accenda il desiderio di rispondere e si generi l’incontro che non è mai una somma meccanica di due buone volontà. Noi sappiamo che questa corrispondenza di sentimenti è dono, che non accade sempre nonostante il nostro impegno e, qualche volta, l’impegno degli altri. La reciprocità è un terzo che si pone "tra" me e te, che non è nostra proprietà: è accaduto, semplicemente, è stato un’eccedenza gratuita e libera. La Bibbia sintetizza tutto ciò con una parola efficacissima: la simpatia e benevolenza che fioriscono in reciprocità sono dono di Dio, e ci chiede gratitudine. A ricordare a noi che abbiamo smesso di sognare Dio e dimenticato le lingue degli angeli, che dentro le nostre relazioni che fanno stupenda la vita c’è qualcosa di divino.

Il primo racconto di Daniele ci mostra dunque un esilio popolato non solo da idolatri e da re spietati: Babilonia è anche la terra di un uomo che prova simpatia e benevolenza per un deportato. Ieri, oggi, sempre. L’uomo è più grande del male che genera e lo circonda, e nessun male, neanche quello più spietato, è assoluto e totale. Nei suoi interstizi si infila, come fiore, il bene - chissà oggi quanti "funzionari" nel tremendum delle nostre guerre stanno provando simpatia e compassione per qualche Daniele?! Siamo più grandi del nostro destino e delle nostre strutture di male. Questo racconto ci dà poi anche un altro suggerimento prezioso. Gli esili, le persecuzioni, le carceri diventano luoghi sopportabili se riusciamo a conquistare la simpatia di almeno un amico che sta dall’altra parte - come ci dice anche l’esperienza straordinaria del vescovo vietnamita Van Thuan.

Il dialogo tra il funzionario e Daniele continua: «Daniele disse al custode, al quale il capo dei funzionari aveva affidato Daniele, Anania, Misaele e Azaria: "Mettici alla prova per dieci giorni, dandoci da mangiare legumi e da bere acqua, poi si confrontino, alla tua presenza, le nostre facce con quelle dei giovani che mangiano le vivande del re"» (1, 10-14). La Bibbia conosce e loda anche l’astuzia, fin dai tempi di Giacobbe-Israele. Nella "Commedia" di Daniele, Ulisse non sta nell’Inferno. L’umanesimo biblico ama e apprezza chi usa l’intelligenza per uscire da situazioni drammatiche. Il suo non è l’umanesimo dell’eroe. Di eroi nella Bibbia ne troviamo pochi: i suoi "eroi" sono uomini fragili, impauriti, che cercano soluzioni nel regno del possibile, che preferiscono un accordo a uno scontro frontale se può salvare la vita loro e quella degli altri. Così Daniele, invece di imboccare la via dello scontro che probabilmente lo avrebbe condotto allo stesso martirio di Eleazaro e dei suoi fratelli (2 Mac 6), trova una soluzione diversa e non cruenta che la Bibbia loda. E così ci mostra un’altra strategia di risoluzione dei conflitti - la Bibbia ne conosce più di una, a partire da quella proposta da Abramo a suo nipote Lot (Gn 13). Daniele, come Giuseppe con il faraone, cerca una via che eviti lo scontro con il re straniero. Non c’è un solo modo buono per risolvere una crisi, e ogni volta dobbiamo decidere, qui ed ora, quello che più sentiamo vicino e giusto, senza usare la nostra "pagina biblica" per condannare le scelte di quelli che usano pagine diverse. C’è sempre un modo che combatte le nostre ideologie mostrandoci sempre più vie per raggiungere lo stesso risultato.

Il testo, poi, non ci dice la ragione del rifiuto alimentare di Daniele, e gli studiosi si sono sbizzarriti in varie ipotesi. L’ipotesi più condivisa è di tipo prettamente religioso-cultuale: Daniele rifiuta il cibo babilonese in quanto poteva essere cucinato senza il rispetto delle norme alimentari della Legge di Mosè, e/o perché poteva essere cibo preparato con animali immolati agli idoli. In ogni caso, ciò che conta per l’autore del libro è il rifiuto del cibo del re e l’elemento decisivo è il "no" di Daniele.

Quando il lettore cristiano incontra questo rifiuto di cibo per "non contaminarsi", corre subito a san Paolo, all’episodio narrato nella prima lettera ai Corinti, dove troviamo un racconto che parrebbe contenere un messaggio opposto a questo di Daniele: «Tutto ciò che è in vendita sul mercato mangiatelo pure, senza indagare per motivo di coscienza» (10,25). L’incidente di Antiochia (Gal 2), poi, un episodio decisivo della Chiesa primitiva, nasce proprio dal diverso atteggiamento di Paolo (rispetto a Pietro e Giacomo) circa il rispetto delle regole giudaiche di purità alimentare. Il confronto tra Paolo e Daniele ci dice qualcosa di estremamente importante: la fedeltà allo stesso principio può portare a due comportamenti opposti. Il principio etico-religioso di Daniele e di Paolo è lo stesso: la fedeltà alla propria fede e coscienza. Questo stesso principio viene però tradotto in modo speculare. Daniele custodisce un valore rifiutando il cibo di un pagano, Paolo salva il valore della sua fede cristiana includendo pagani e cibo contaminato nella stessa mensa dell’agape. Se Paolo avesse imitato la forma e la lettera del racconto di Daniele avrebbe tradito la sostanza e lo spirito della sua fede. In realtà, dentro e fuori le religioni, è troppo forte la tentazione di far coincidere forma e sostanza, e quindi tradire la verità di oggi in nome di una verità vera di ieri imitata oggi. Come facevano quei falsi profeti che contestavano il profeta Geremia che consigliava al suo popolo la resa di fronte alla superpotenza babilonese, e lo facevano in nome delle parole di non-resa pronunciate, un secolo e mezzo prima, da Isaia durante la resistenza agli Assiri. Sta quasi tutta in questa capacità di discernimento l’intelligenza delle Scritture e della vita.

C’è però anche una seconda ipotesi, minoritaria ma non meno interessante, che spiega il rifiuto del cibo da parte di Daniele come una scelta di non voler dipendere dalla ricchezza e dal lusso della corte del re, una scelta di povertà ed essenzialità per salvare una propria autonomia di coscienza e la libertà. La Bibbia conosce bene queste forme di controllo e di cattura tramite l’offerta del cibo (2 Sam 9,7). Non è raro che preferire la povertà all’agiatezza dei potenti sia una via maestra per salvarsi l’anima in terra di esilio. Quella dieta vegetariana e astemia di Daniele e dei suoi amici potrebbe essere stata allora un atto di resistenza etica prima di essere anche un gesto legato al culto religioso o a una disciplina ascetica simile a quella dei Recabiti (Ger 35) o dei Nazirei (Lam 4). Il controllo sul cibo non è solo una faccenda di calorie e salute. È molto di più. È autonomia, libertà, dignità, e perdere il controllo del cibo è perdere il controllo di un pezzo importante di coscienza e di consapevolezza dell’esistenza - oggi lo dovremmo capire forse meglio di Daniele.

L’esperimento alimentare di Daniele riuscì: «Il funzionario acconsentì e fece la prova per dieci giorni, al termine dei quali si vide che le loro facce erano più belle e più floride di quelle di tutti gli altri giovani che mangiavano le vivande del re. Da allora in poi il sovrintendente fece togliere l’assegnazione delle vivande e del vino, e diede loro soltanto legumi. Dio concesse a questi quattro giovani di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni sapienza, e rese Daniele interprete di visioni e di sogni» (1,15-16). Il libro di Daniele è una costellazione di sogni. L’esilio e le persecuzioni terminano se un giorno iniziamo a sognare un futuro diverso e se c’è almeno un profeta buono che interpreta i nostri sogni. Gli esili invece non finiscono mai se decidiamo, per il troppo dolore, di non sognare più o se qualcuno ha ucciso tutti i profeti.

In quella notte dopo il Sabato nell’orto di Giuseppe di Arimatea c’era Daniele insieme a tutti i sognatori e i profeti dell’Antico Testamento, insieme ai profeti veri delle religioni e della sapienza antiche. Tra i sogni non narrati da nessun libro c’era anche il sogno dei sogni: un sepolcro finalmente vuoto. Erano lì tutti a cantare in coro il grande Salmo 3: «Mio Dio, ti prego, risorgi». Risorgi perché devi risorgere. Perché se non risorgi tutto il dolore assurdo del mondo è solo un immenso spreco, un’ingiustizia insopportabile, un oceano di disperazione che inghiottirebbe anche te o Dio. Nessuno potrebbe protestare per la tua morte, il letame di Giobbe non genererebbe nessuna letizia. Se quel sepolcro non si svuota è l’universo che diventa un infinito vuoto: mio Dio, ti prego, risorgi.

l.bruni@lumsa.it

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: