«Se il vostro Dio non vuole l’idolatria perché non la elimina»? I saggi risposero: «Se l’idolatria riguardasse solo ciò di cui il mondo non ha bisogno, Egli certamente la eliminerebbe. Ma gli uomini considerano divinità anche il sole, la luna, le stelle e i pianeti. Deve Egli forse distruggere tutto il mondo perché ci sono dei pazzi?»
Talmud Babilonese, Avodah Zarah
Ai potenti non basta erigere la propria statua. Vogliono che sia adorata, che sia oggetto di pellegrinaggi e liturgie. Una statua senza culto sarebbe insufficiente, perché la statua è divina solo se adorata dai fedeli. E quindi occorrono i sudditi, che sono tali perché adoratori della statua del re. È questa l’essenza del potere, che può rinunciare a tutto tranne all’adorazione. Ecco perché nella Bibbia ogni potere è tendenzialmente idolatrico, e perché ogni statua, di dèi o di sovrani, è un idolo. Noi abbiamo smesso di credere agli dèi ma non di adorare statue. Alle grandi imprese di oggi non bastano i profitti: vogliono l’adorazione della statua, la devozione al marchio, la genuflessione di fronte alla merce, la fedeltà del consumatore. Eppure la Bibbia ce lo aveva detto e oggi lo vediamo chiaramente: togliere Dio dall’orizzonte della storia non significa eliminare l’immagine di Dio dal mondo, significa solo moltiplicare le statue, gli idoli, gli adoratori di feticci. Perché se il capitalismo fosse soltanto una faccenda di soldi non ci avrebbe occupato da tempo il tempio dell’anima.
Il sensazionale successo di Daniele come interprete di sogni gli conquistò fama e onore alla corte del re Nabucodònosor: «Su richiesta di Daniele, il re fece amministratori della provincia di Babilonia Sadrac, Mesac e Abdènego. Daniele rimase alla corte del re» (Daniele 2,49). Questa separazione tra Daniele e i suoi tre amici introduce il famoso racconto del miracolo della fornace, una delle narrazioni bibliche più amate.
Siamo ancora dentro un ambiente dominato da una statua. Non quella tremenda sognata da Nabucodonosor, ma quella fatta costruire da lui: «Il re Nabucodònosor aveva fatto costruire una statua d’oro, alta sessanta cubiti e larga sei» (3,1). Una statua colossale, di circa 35 metri. Gli imperatori hanno sempre amato farsi rappresentare con statue gigantesche, e non solo nell’antichità. In questo caso non sappiamo se la statua rappresentasse il re o il dio a capo del pantheon babilonese: Marduk. Comunque è chiaro che siamo dentro un fenomeno idolatrico: «I prefetti, i governatori... e tutte le alte autorità delle province vennero all’inaugurazione della statua. Essi si disposero davanti alla statua fatta erigere dal re. Un banditore gridò ad alta voce: "Vi prostrerete e adorerete la statua d’oro, che il re Nabucodònosor ha fatto innalzare. Chiunque non si prostrerà alla statua, sarà gettato in mezzo a una fornace di fuoco ardente"» (3,3-6).
Dopo il successo di Daniele, ora si profila una crisi: «Alcuni Caldei si fecero avanti per accusare i Giudei e andarono a dire al re Nabucodònosor: "Re, ci sono alcuni Giudei, Sadràch, Mesàch e Abdènego, che non ti obbediscono, re: non servono i tuoi dei e non adorano la statua d’oro che tu hai fatto innalzare"» (3,8-12). I caldei, forse un gruppo di scribi, non stanno calunniando i tre amici. Dicono qualcosa di vero, lo vedremo. Non è necessaria una bugia per fare del male a qualcuno. Spesso una cattiveria è confezionata con notizie vere, ma usate come armi per uccidere. Ci sono cattiverie generate da menzogne, ma ce ne sono altre costruite con verità che però, perdendo contatto con la benevolenza, si snaturano e diventano maligne. Molte denunce svelano cose vere – gli ebrei lo hanno sempre saputo – ma nascendo da una intenzione di morte sono mortifere. La verità senza amore è l’altro nome del male.
Forse quei caldei volevano eliminare i tre giudei per prendere il loro posto nel governo di quella provincia, o forse non pensavano di trarre alcun vantaggio da quella denuncia tranne il piacere di fare del male a qualcuno: non è facile dire quale delle due azioni è la peggiore. Quando chi ci fa male lo fa in vista di un suo interesse, le sue azioni sono prevedibili e ci possiamo difendere; quando, invece, chi agisce lo fa mosso da passioni irrazionali è molto difficile prevederle ed è quasi impossibile porre fine alle guerre, perché le persone si nutrono del conflitto stesso (il nazionalismo è sempre stata una di queste passioni). Nel Settecento filosofi ed economisti (Montesquieu, Smith, Genovesi) pensavano che lo sviluppo del mercato avrebbe posto fine alle guerre perché, credevano, il mercato ha bisogno degli interessi e non delle passioni distruttrici – chissà cosa direbbero oggi di fronte a Paesi che pretendono di combattere guerre usando sanzioni commerciali?
Lo sviluppo del racconto ci dice che le spie avevano ragione: «Allora Nabucodònosor, sdegnato, comandò che gli si conducessero Sadràch, Mesàch e Abdènego, e questi comparvero alla presenza del re. Nabucodònosor disse loro: "È vero che voi non servite i miei dèi e non adorate la statua d’oro? (...) Sarete gettati in mezzo a una fornace dal fuoco ardente. Qual Dio vi potrà liberare dalla mia mano?». Ma Sadràch, Mesàch e Abdènego risposero al re Nabucodònosor: «Re, noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace con il fuoco acceso e dalla tua mano, o re» (3,13-17).
Da questo brano tutto sembra preparare una struttura classica di martirio, di testimoni estremi di fronte a un potente che impone con la forza un atto di culto che un fedele non può compiere – «non abbiamo bisogno di darti una risposta». La logica del martirio è sempre la stessa ed è sempre stupenda (se ben intesa). Il martirio non ha bisogno della certezza dell’esistenza del paradiso, la ricompensa dopo la morte non è il salario dei martiri. Al tempo del libro di Daniele, in Israele non era affatto evidente che ci fosse una vita oltre la morte. Ci sono molti testimoni di una verità che muoiono da martiri senza credere in un al di là (anche se in ogni morte bella c’è sempre un aldilà, fosse anche la memoria da lasciare a un figlio).
Ma c’è qualcosa di più. Gli amici di Daniele erano uomini di fede, ma per accettare il martirio non hanno bisogno della certezza che Dio li salverà dalla fiamme: «Ma anche se Dio non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto» (3,18). Ma anche se Dio non ci liberasse... Questo versetto è un’innovazione spirituale ed etica immensa. Il martire-testimone si trova di fronte a una non-scelta. Non è un eroe tragico che deve scegliere tra due alternative: morire o tradire. Il martire ha già escluso la seconda possibilità (tradire), perché non è un’alternativa praticabile: lo è in teoria, ma non nella prassi. La Bibbia ci dona un Dio che è soprattutto il Dio della vita, ma ci insegna che salvarsi la vita non è la cosa più importante nella vita: salvarsi la coscienza è più importante di salvarsi la pelle. La nostra dignità e il nostro valore sono più grandi della nostra stessa vita, al punto di poterla liberamente donare, in molti modi, anche nel martirio, quando l’esistenza, finendo, fiorisce pienamente in bellezza nell’atto più grande di libertà.
La fede autentica non è abiurabile come non possiamo abiurare le nostre viscere e il nostro midollo. La fede biblica non dà scampo, come non lo dà ogni fede vera, perché, semplicemente, se tradisco la mia fede rinnego la parte migliore di me, muoio prima di morire. Questa dimensione tremenda e stupenda della fede la ritroviamo anche in pochi momenti decisivi della vita quando ci accorgiamo che non esiste scelta, che la strada da imboccare è solo una. Abbiamo incontrato una persona con cui iniziare una nuova vita, siamo stanchi e stufi di moglie, marito, convento, comunità. Decidiamo di cambiare vita, e il giorno in cui dovremmo veramente partire ci accorgiamo che la scelta non c’è, perché quella fedeltà a una famiglia in crisi, a una comunità spenta è, semplicemente, la parte più profonda di noi. E restiamo, magari infelici, ma veri.
Allora capiamo meglio cosa è veramente un martirio. Il martire accetterebbe il martirio anche se fosse certo che non ci fossero né il paradiso né l’intervento di Dio. Ecco perché, paradossalmente, il martirio dell’ateo ci svela la natura più radicale di ogni martirio.
Nella storia dei tre compagni la salvezza arriva: «Il re comandò di legare Sadràch, Mesàch e Abdènego e gettarli nella fornace con il fuoco acceso. (...) Essi passeggiavano in mezzo alle fiamme, lodavano Dio e benedicevano il Signore» (3,20-24). Il racconto sembrerebbe condurre all’esito del parallelo racconto del II Libro dei Maccabei (cap. 7), dove una madre, anonima, e i suoi sette figli muoiono martiri. Ma ecco il colpo di scena: «L’angelo del Signore, che era sceso con Azaria e con i suoi compagni nella fornace, allontanò da loro la fiamma del fuoco e rese l’interno della fornace come un luogo dove soffiasse un vento pieno di rugiada. Così il fuoco non li toccò affatto, non fece loro alcun male, non diede loro alcuna molestia» (3,48-50). Una miracolosa salvezza: «Allora il re Nabucodònosor rimase stupito e alzatosi in fretta si rivolse ai suoi ministri: (...) "Ecco, io vedo quattro uomini sciolti, i quali camminano in mezzo al fuoco, senza subirne alcun danno; anzi, il quarto è simile nell’aspetto a un figlio di dèi"» (3,91-92). La stessa Bibbia, due esiti molto diversi: per quella madre e i suoi sette figli non arrivò l’angelo a salvarli, che invece arriva per i tre compagni. È questa la salvezza plurale della Bibbia. Il mondo è pieno, ogni giorno, di figli che muoiono e di figli salvati. E ogni finale può essere buono, se vissuto come fedeltà e libertà.
Gli interpreti di ogni tempo sono sempre rimasti affascinati dal "quarto uomo" che il re vede uscire dalla fornace insieme ai tre compagni. Uomo e anche "figlio di dèi". Qualcuno vi ha visto lo stesso Daniele, altri un angelo, il messia, gli autori cristiani una prefigurazione del Cristo. Non lo sappiamo. È un quarto personaggio che poteva non esserci in questa storia già stupenda. E invece c’è. E quando nella Bibbia troviamo una parola, un personaggio che c’è e poteva non esserci, è sempre il brano donato, è tutta gratuità. Mi piace pensare che quando degli amici fedeli donano la vita insieme, nel loro camminare in compagnia verso il martirio c’è sempre un "quarto compagno". A volte lo vediamo, altre no. Ma è lì, in mezzo a noi, a rendere piena di "vento di rugiada" l’ultima andata e, qualche volta, il ritorno.
l.bruni@lumsa.it