I bambini che imparano le parole sono uno degli spettacoli più belli sulla terra. Nel giro di qualche settimana il loro vocabolario esplode, e le pochissime parole dei primi due anni di vita si moltiplicano, diventano centinaia e poi migliaia. Ogni giorno porta con sé la sua dote di parole nuove, che il bambino apprende tutte assieme. Una volta divenuti adulti, però, le parole si reimparano solo una alla volta, quando un incontro, una malattia, una grande crisi diventano levatrici di parole. All’improvviso una parola-suono pronunciata migliaia di volte diventa parola-carne. Chissà che cosa sapeva Abramo della parola altare finché non ci distese sopra un figlio; o che cosa pensasse del mare Mosè prima di vederlo aperto davanti ai suoi occhi. Era cresciuto in mezzo ai legni nell’officina di suo padre, ma forse il senso della parola legno Gesù lo capì veramente sul Golgota. La Bibbia è anche una grande mappa per orientarsi nell’universo e nel mistero della parola e delle parole. Molte persone, dopo decenni di mutismo spirituale e morale, un giorno l’hanno incontrata e hanno reimparato a parlare, e con quelle parole donate hanno iniziato a pregare, senza accorgersene.
Alcune parole bibliche sono poi così centrali e parlanti da rappresentare ideali libri nel Libro. Potremmo raccontare la Bibbia guardandola attraverso il pane, i bambini, l’acqua, il dolore, le madri. O inseguendo le declinazioni e i sensi della parola cuore.
Leb (o Lebab) ricorre circa mille volte all’interno della Bibbia, più di ottocento volte nell’Antico Testamento. Una parola che come tutte le parole grandissime dall’inizio alla fine porta con sé una radicale ambivalenza. Il cuore bilico non concede nulla al sentimentalismo, e anche quando è immagine di sentimenti resta parola seria e sobria come la vita che massimamente simboleggia. E così, la prima volta, la troviamo in un contesto tragicissimo, incastonata tra Caino e Noè, al centro della prima notte oscura dell’umanità che culminerà nel diluvio: «Il Signore vide ... che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre» (Gen 6,5). E farà la sua ultima apparizione nel libro dell’Apocalisse, ancora in un contesto buio e minaccioso, nei dialoghi dell’angelo con la donna e con la bestia (17,17).
Ma nell’Esodo il cuore è anche il luogo dove Dio infonde l’ispirazione, dove nasce la creatività dell’arte: «Nel cuore di ogni artista ho infuso saggezza» (Es 31,6). Tutta la Legge di Mosè è poi una faccenda di cuore: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt. 6,5). La durezza del cuore degli israeliti è un grande tema profetico, ma ancora più grande è l’invocazione del cuore in Geremia, nella sua crisi vocazionale più tremenda: «Mi dicevo: "Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!". Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente» (Ger 20,9). Non c’è luogo più profondo di quello dove alberga la voce che chiama per nome, e non c’è parola migliore di leb-cuore per indicare questa profondità profondissima. C’è poi un rapporto speciale tra donne e cuore. Anna per dire dove si trova l’esultare dello spirito, nel suo Magnificat evoca il cuore: «Il mio cuore esulta nel Signore» (1 Sam 2,1). E il cuore continua a occupare il centro anche nel nuovo testamento: arde nei discepoli di Emmaus, è al centro di una beatitudine bellissima, è la casa che Maria custodisce.
Ma tra i molti stupendi passi nei quali la Bibbia ci ha spiegato la semantica della parola cuore, su tutti svetta altissimo il canto di Ezechiele. Siamo in esilio, Gerusalemme è stata distrutta insieme al suo tempio. Il popolo di Israele è immerso in una desolazione e un fallimento totali, che Ezechiele legge come culmine di una lunga storia di perversione e di infedeltà iniziata quando il popolo era ancora schiavo in Egitto e poi continuata per oltre cinque secoli nella terra promessa (Ezechiele 36,17). Questo capitolo di Ezechiele sul "cuore nuovo" arriva dunque dopo mille idolatrie, dopo i reiterati culti nei santuari sbagliati, dopo i molti olocausti dei bambini, le numerose orge con le prostitute sacre delle alture cananee, dopo le illusioni dei falsi profeti e le derisioni e lo scherno di cui era stato oggetto il profeta nei primi anni della sua predicazione, solo per aver denunciato pubblicamente le corruzioni della sua comunità. Il canto di Ezechiele risuona in questo paradiso perduto, dentro il patto spezzato e l’Alleanza tradita, in questa lunghissima eclisse della Promessa. E da questo suo paesaggio prende colore, senso e forza.
Se vogliamo tentare di intuire qualcosa di questo canto, dobbiamo provare a metterci nel suo stesso deserto morale e teologico, sederci accanto a Ezechiele nel suo posto di vedetta, e da lì udire le sue parole, intercettandole in mezzo al rumore assordante degli dèi egizi, cananei e babilonesi. Dovremmo poi cercare di ascoltare questo suo salmo come se non lo avessimo mai udito, come se ci fosse annunciato per la prima volta; come fossimo nati oggi, ignoranti di Bibbia e di parole. Ascoltarlo seduti sulle macerie delle idolatrie infinite del nostro tempo, sul silenzio del nostro Dio sconfitto, in mezzo al rumore assordante delle chiacchiere religiose delle nostre spiritualità a buon mercato. Solo se ascoltate in questa indigenza antropologica e teologica le parole-canto di Ezechiele possono conservare oggi un’eco della forza con cui quelle sue prime parole giunsero agli esiliati lungo i fiumi di Babilonia che le ascoltarono per la prima volta – ogni lettura della Bibbia non ci lascia indenni se si ricrea lo stesso miracolo del primo ascolto: «Vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli» (36,24-25). Ritorno in patria e purificazione da tutti gli idoli e contaminazioni: per tanta letteratura e teologia questi due versi sarebbero sufficienti per indicare la grande luce che attende il popolo ancora immerso nelle tenebre. Per Ezechiele no. Perché lui vuole dirci qualcosa di estremamente importante per comprendere la logica dei ritorni.
Ci vuole dire che per porre fine a un esilio non basta tornare in patria. Anche in quel grande giorno del ritorno – e ce lo ripeterà più tardi con una forza straordinaria quel profeta e poeta anonimo noto come "terzo Isaia" – il popolo ritornato a casa continuerà la sua infedeltà, a meno che non accada qualcosa di molto più importante di un ritorno materiale. Dagli esili si ritorna sempre peggiori di come si era partiti, se il ritorno non diventa nuovo esodo verso una nuova terra promessa.
Ecco perché per ricominciare davvero dopo le deportazioni non bastano i riti di purificazione. Dopo una lunga malattia non basta tornare dal parrucchiere, andare a comprare un bel vestito nuovo, magari confessarsi, invitare tutti gli amici a cena, rimettersi "esteriormente" a nuovo. Tutto questo è importante e in molti casi è anche necessario; ma per ricominciare davvero c’è bisogno di qualcosa di diverso e di più profondo: ci serva un’altra terra promessa, una nuova chiamata, un nuovo grande sogno. Ed è per dirci tutto questo che Ezechiele non trova immagine più adatta del "cuore nuovo", con cui compone uno dei versi più belli e sublimi della Bibbia e della letteratura sacra di tutti i tempi. Eccolo: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (36,26).
Parole che spezzano il fiato, che diventano immediatamente preghiera perché ci fanno esclamare: "Ah, che desiderio e nostalgia di questo cuore nuovo: così sia, amen, amen. Per noi, per me, per i nostri figli, per chi amiamo". La bella notizia è che queste conversioni intime e segrete (il cuore è invisibile dall’esterno) qualche volta accadono davvero. Sono rarissime, ma ci sono. Non dovremmo lasciare questa terra senza averne vissuta almeno una – in noi stessi, o, ed è lo stesso, averla vista in un figlio o in un amico. Accadono dopo aver provato invano molte volte a cambiare vita, dopo aver fatto cento promesse a noi stessi e agli altri e averle fallite tutte. E poi arriva un giorno diverso e il "cuore" cambia davvero. È un giorno non cercato, non programmato, in genere un giorno normalissimo e ordinario. Non arriva come frutto del nostro impegno e delle nostre virtù, ma giunge quando siamo abbastanza deboli per non opporre resistenza al normale scorrere della vita. Non lo attendavamo, ma è arrivato. Non lo abbiamo riconosciuto mentre arrivava; solo alla fine della lotta notturna ci ha rivelato il suo nome, mentre ci cambiava il nostro, per sempre. Perché gli eventi davvero decisivi dell’esistenza non giungono come premio del nostro impegno, non li costruiamo, perché sono soltanto e semplicemente dono. E noi troppe volte non ci accorgiamo di quanta grazia riempie la nostra vita perché siamo troppo occupati a meritarci le nostre conquiste – e così nella parete dei nostri meriti non resta alcun pertugio dove la Provvidenza può entrare e raggiungere il nostro cuore. Ecco perché Ezechiele ci dice che questa alchimia della pietra morta e dura in carne viva e morbida è operata dallo Spirito, e lo vedremo meglio nel gigantesco capitolo delle ossa inaridite.
Molto suggestiva e rivelativa è anche l’ultima parte di questo grande capitolo: «Chiamerò il grano e lo moltiplicherò e non vi manderò più la carestia. Moltiplicherò i frutti degli alberi e il prodotto dei campi, perché non soffriate più la vergogna della fame fra le nazioni» (36,29-30). La fame è una vergogna. Una frase che dovremmo affiggere all’ingresso di ogni istituzione e organizzazione per lo sviluppo umano.
Torna ancora il linguaggio dell’economia e della prosperità per esprimere benedizione e vita nuova. Ormai lo sappiamo: i profeti hanno solo le parole della vita per parlare di Dio, perché sono molto più laici di noi. E quindi torna il lavoro: «Quella terra desolata ... sarà di nuovo coltivata e si dirà: "La terra, che era desolata, è diventata ora come il giardino dell’Eden"» (36,34-35). Non è raro che ci accorgiamo di aver ricevuto un cuore nuovo quando ricominciamo a lavorare. Ritorniamo al normale lavoro di sempre, e lì sentiamo che qualcosa di profondo è cambiato, ma non lo sapevamo prima di tornare in ufficio o in fabbrica. Lavorare è anche tutto questo.
L.bruni@lumsa.it