Io detesto, respingo le vostre feste solenni e non gradisco le vostre riunioni sacre. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo! Piuttosto come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne
Amos 5,21-24
Nella Bibbia l’economia è qualcosa di tremendamente serio. È posta, non a caso, accanto al peccato di idolatria. La sua teologia diventa immediatamente antropologia, e quindi denaro, prestiti, interesse. È questa la bella laicità della Bibbia, dove Dio per parlarci di sé usa anche le parole dei nostri affari, innalzandoli fino a far loro bucare il cielo. E non dovremmo stupirci se quando qualcuno di noi giungerà in paradiso rivedrà in mezzo alla danza delle persone divine e dei beati il tornio, il cacciavite, mobili e vestiti. Se perdiamo questa co-essenzialità dell’asse verticale e di quello orizzontale non capiamo nulla dell’umanesimo biblico e di quello dei Vangeli. L’economia è parte della vita, e dobbiamo ricordarlo ancora di più oggi quando vuole debordare e diventare la vita intera. Ma, al tempo stesso, le relazioni economiche determinano la qualità e la giustizia di tutte le altre, e quindi sbagliare il rapporto con l’economia e con la finanza significa sbagliare anche il rapporto con Dio. La Bibbia ha voluto, ha dovuto tenere radicalmente legate l’oikonomia della salvezza con l’economia quotidiana degli affari e del denaro, e nel far questo ci ha lasciato un’eredità senza prezzo perché dal valore infinito.
«La grande aquila, dalle ampie ali e lunghe penne, folta di piume dal colore variopinto, venne sul Libano e strappò la cima del cedro; stroncò il più alto dei germogli e lo portò in un paese di mercanti, lo pose in una città di negozianti» (Ezechiele 17,3-5). Nella Bibbia la natura è molto di più di un fondale dove si svolgono la commedia e la tragedia umana. Uomini, montagne, cielo, vento, fuoco... vivono, si muovono e "parlano" insieme ad aquile, leoni (cap.19), cedri e viti. Le piante non entrarono nell’arca di Noè, ma sono salite sull’arca della Bibbia, dove anche gli alberi sono vivi e, qualche volta, diventano parole che i profeti utilizzano per dare la parola a YHWH. Gli animali e la natura sono inclusi nel loro dialogo con gli uomini e con Dio. Sono cantori globali della creazione. Perché la parola di Dio è parola di vita, e la vita umana, capolavoro della creazione, è comunque insufficiente per dire da sola qualcosa di vero sul mistero della vita. Nabucodonosor II, la grande aquila, catturò con i suoi artigli il re di Israele (il germoglio più alto del cedro, Ioiackin, nella prima deportazione del 598 a.C.), e lo esiliò a Babilonia. La parabola poi continua con l’arrivo di una seconda aquila («ma c’era un’altra aquila grande»: 17, 7), immagine della superpotenza egizia, verso la quale Israele si rivolse (nel 591) nella ricerca, che si mostrerà insensata, di una condizione politica migliore di quella assicurata dal trattato con i babilonesi.
Ezechiele si ritrova a essere profeta di una parte del popolo esiliato, un esilio letto e vissuto come punizione dei peccati di idolatria dei padri, per il tradimento collettivo dell’Alleanza. Uno stato morale e religioso che poteva paralizzare il popolo e uccidere ogni speranza non-vana. Deve quindi assolutamente ricostruire l’anima della sua gente, dare loro ancora una possibilità di salvezza: «Se il malvagio si allontana da tutti i peccati che ha commesso e osserva tutte le mie leggi e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà, non morirà» (18, 21). Per non morire ciascuno deve ripudiare gli idoli, certo, ma il profeta ci dice che deve praticare anche un’etica diversa, che diventa il modo concreto per dire con le mani la fedeltà del cuore: «Liberatevi da tutte le iniquità commesse e formatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Perché volete morire, o casa d’Israele? Io non godo della morte di chi muore» (18, 31-32).
In questa operazione etica e teologica fondamentale, entra in campo l’economia, e occupa un posto centrale.
Ezechiele, infatti, per descrivere Babilonia usa poche parole capaci però di svelarne l’essenza: «Paese di mercanti, città di negozi». Questa scelta lessicale ci può dire molte cose se la lasciamo parlare. A Ezechiele e agli ebrei deportati dovette impressionare molto l’economia di quel grande impero. Anche se gli antropologi del secolo scorso ci hanno raccontato come il mercato sia un’invenzione moderna, perché le comunità antiche regolavano i loro scambi prevalentemente con il dono e con la redistribuzione di ricchezza, oggi grazie alle migliaia di tavolette rinvenute dagli scavi recenti sappiamo invece che la Babilonia di Nabucodonosor aveva raggiunto un eccezionale sviluppo economico e finanziario, non distante, per quantità e qualità, da quello che troveremo nel tardo impero romano o nelle città italiane medioevali (e quindi non troppo diverso dal nostro). Quell’economia era prevalentemente monetaria (argento), esisteva un mercato del lavoro con operai salariati, fiorenti commerci interni ed esterni, e un sofisticato sistema bancario, imperniato sui templi con la loro ricca e complessa economia e finanza. In tutto il Medio Oriente antico il tasso di interesse sui prestiti era consentito, e in alcuni codici babilonesi era limitato al 20% sul denaro e al 33.3% sul frumento. In tutto il medio-oriente... tranne Israele. Perché? Quali sono le ragioni di questa unicità del divieto biblico di prestito a interesse, che così tanto ha condizionato lo sviluppo dell’Occidente, fino all’età moderna?
In economie non monetarie, dove la moneta copre solo pochi ambiti della vita, il denaro non è decisivo. Ma se l’economia diventa monetaria e quindi il denaro intermedia la maggior parte delle relazioni, il rapporto con il denaro è decisivo per la vita, e, aggiunge profeticamente Ezechiele, anche per la fede. Non si era (non si è) quindi uguali nel comando del denaro, e chi lo detiene è tremendamente tentato ad abusare del potere che ha, a usarlo senza giustizia. Chi dà prestiti non era (e spesso non è) in una condizione di uguaglianza con chi li riceve. Chi lo offriva era ricco, potente, magari rivestito di una autorità sacrale – in genere le banche erano legate al re o ai templi. Chi lo domandava si trovava in una condizione di bisogno, di incertezza sul proprio futuro, era dunque più debole. Israele, in quell’esilio, capisce allora che impedire l’usura significa non permettere che l’uso del potere crei rendite per i più forti a scapito della parte più fragile del popolo. La profezia è sempre profezia economica, non resta mai faccenda soltanto "religiosa" e di culto – e quando lo diventa si trasforma in falsa-profezia.
La cattività babilonese, l’osservazione in diretta delle gravi conseguenze dell’usura sui debitori, furono decisivi per la nascita della legislazione speciale e unica della Torah ebraica (scritta prevalentemente dopo l’esilio), che attribuì una importanza centrale ai debiti, ai prestiti e all’interesse. Il giubileo era anche, e in certi periodi soprattutto, il tempo della liberazione di schiavi divenuti tali per non aver restituito i debiti ai loro debitori che diventavano padroni dell’intera famiglia.
E< così, nel lungo esilio, in una terra commerciale e finanziaria, senza tempio e culto, grazie a Ezechiele e ai profeti dell’esilio il popolo di Israele comprese che per rifondare l’etica dell’Alleanza c’era bisogno di una lotta senza quartiere contro il fascino di quei diversi dèi, seducenti, naturali e pieni di colori come le aquile; ma c’era la stessa urgenza di rifondare una vita sociale ed economica differente da quella dominante in quel grande impero. Per dire chi era il loro Dio scrissero un’altra economia, negarono gli interessi sul denaro per esaltare gli interessi dei poveri e la giustizia divina. Un Dio che ascolta il grido dei poveri non poteva ascoltare la voce degli usurai. La diversità teologica divenne immediatamente diversità etica e quindi economica.
Non stupisce, allora, che quando Ezechiele indica quali sono le condizioni per convertirsi ed essere giusto, così scriva: «Uno è giusto se osserva il diritto e la giustizia, se non mangia sui monti e non alza gli occhi agli idoli della casa d’Israele,... se restituisce il pegno al debitore, non commette rapina, divide il pane con l’affamato e copre di vesti chi è nudo, se non presta a usura e non esige interesse» (18,5-8).
Un popolo con un Dio diverso da tutti gli altri popoli produsse una unica e diversa etica economica e finanziaria. In quell’impero idolatrico ed economico-finanziario Ezechiele capì che una delle lezioni teo-antropologiche che quel grande dolore stava donando a un gruppo impaurito e scoraggiato di esuli era la comprensione della natura religiosa del denaro, talmente religiosa che diveniva il materiale degli idoli ma anche il primo mattone della costruzione della prima nuova casa. Ieri e oggi l’economia vive di questa radicale e tremenda ambivalenza. Erano denari i trenta che Giuda usò per il suo turpe commercio, erano denari i due spesi dal Samaritano per associare un commerciante alla sua prossimità. Con l’oro si costruì il vitello sotto il Sinai, con l’oro e l’argento si costruiscono la nostra giustizia e la nostra ingiustizia. Noi lo abbiamo dimenticato, e così usciamo di chiesa e subito dopo investiamo denaro in banche che finanziano l’azzardo e le mine anti-uomo, e non abbiamo nemmeno i profeti che ci dicono: "Guai a voi!" – e se e quando ne resta qualcuno capace di ripetercelo ancora, non lo ascoltiamo o lo ridicolizziamo.
Le azioni economiche non sono soltanto etica: sono teologia. Sta anche qui la grande serietà dell’economia. La giustizia socio-economica ha la stessa natura e dignità del culto religioso. Ezechiele non pone una gerarchia tra i suoi precetti: tradiamo l’Alleanza e moriamo sia venerando Baal sia angariando il prossimo con prestiti usurai e con contratti ingiusti. Moriamo nell’anima diventando idolatri, moriamo nell’anima usando il nostro potere economico contro i poveri. I profeti ci ricordano questo legame, ci fanno vedere questa corda che lega YHWH all’economia. Noi proviamo in tutti i modi di tagliarla, e loro devono continuare a ricordarcelo.
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