Le nostre parole più importanti hanno la capacità di diventare storia, carne, di incarnarsi nella nostra vita. Se non ci fossero queste poche parole diverse, tutto il nostro parlare e scrivere sarebbe soffio, vento, vanitas. Se diciamo parole vere di lode della povertà e dei poveri, mentre ancora viviamo nei comodi delle ricchezze, verrà il giorno in cui quelle parole diventeranno vita e saremo anche noi finalmente poveri. Se crediamo che un crocifisso ci ha salvato e annunciamo questa fede, arriva il momento in cui saremo inchiodati anche noi su una croce per incarnare quella salvezza, per liberare i nostri amici dal loro inferno. Un profeta può per molti anni dire parole che lui stesso non vive, ma se non è un falso profeta arriva il giorno nel quale diventerà le parole che ha annunciato. Può piangere per molto tempo sul suo popolo umiliato e schiacciato, finché un giorno non diventa anch’egli schiacciato, umiliato, reietto, come il suo popolo. E la sua vocazione si compie.
«Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane. YHWH mi ha chiamato dalle viscere di mia madre, fin dal grembo materno ha pronunciato il mio nome» (Isaia 49,1). Siamo all’interno di un ciclo tra i più alti del libro di Isaia e di tutta la letteratura profetica: i canti del servo. Non sappiamo chi sia questo misterioso «servo di YHWH». Che sia però una figura fondamentale della profezia isaiana lo dice anche la sua presentazione che l’autore affida allo stesso YHWH: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui, ne uscirà per i popoli una Rivelazione» (42,1). Gli studiosi e i commentatori, in questo «servo» hanno visto la figura di un re liberatore, il popolo d’Israele, un nuovo Mosè, lo stesso autore di questi canti (l’anonimo secondo Isaia), un profeta del passato o del futuro, e molto altro ancora. Forse i quattro canti del servo, oggi disseminati e frammentati in vari capitoli, erano originariamente una composizione unica, forse opera dello stesso secondo Isaia, poi sezionata e emendata da un redattore successivo. Forse. Ciò che è certo è che questo servo è simbolo di molte realtà diverse. In questi canti si alternano versi dove il servo appare come un re (cap. 42) con altri dove ci è mostrato come un profeta (cap. 49), e altri ancora dove è immagine e personificazione dell’intero popolo («Ti ho stabilito come alleanza del popolo»: 49,8). In alcuni capitoli (50 e 53) la poesia profetica si eleva, supera tempo e spazio, si sublima, lascia la sua traiettoria normale per diventare anche il canto e il lamento di tutti i servi degli uomini e dei potenti, degli schiavi, dei crocifissi della terra e del cielo, senza con ciò smettere di essere immagine anche della vita del profeta – in alcune tradizioni bibliche, anche Isaia, come Geremia, morì martire, segato in due.
Perderemmo molto del valore profetico di questi meravigliosi canti se trascurassimo la vicenda autobiografica del suo autore profeta, del secondo Isaia. Allora possiamo, e forse dobbiamo, leggere questi canti del servo anche come una meditazione e una rivelazione della vocazione e del destino dei profeti – di ieri, di oggi. All’inizio, anche qui, troviamo una Voce che chiama e rivela un destino che prima di quell’incontro non era conosciuto dalla persona chiamata. Questo evento, però, è a un tempo un incontro con qualcuno/qualcosa di esterno e una esperienza intimissima. Si sente che la voce che chiama sta svelando – togliendo il velo – a ciò che eravamo da sempre, fin dall’origine, fin dal "grembo". È questa tensione tra una voce che chiama fuori e l’intimità più grande a costituire la sostanza più vera delle vocazioni – forse di tutte, certamente di quelle profetiche e carismatiche. Sono tutto esterno e tutto interno, tutto nuovo e tutto antico, tutto sconosciuto e tutto noto, tutta felicità e tutto dolore, tutto cielo e tutta terra. Insieme. Talmente insieme che sebbene la chiamata sia arrivata in un preciso giorno e luogo, queste persone quasi non ricordano come fosse la vita prima della chiamata, e non riescono a immaginare una vita diversa da quella che hanno vissuto. E anche quando "istituzionalmente" l’esperienza vocazionale si interrompe e termina, al termine della vita scoprono di non essere mai usciti dal luogo di quel primo incontro. Perché il vero posto dell’incontro era il grembo materno. È lì che siamo stati segnati, dove ci è stata insegnata la via, per sempre. Questa nostalgia dell’inizio non ci lascia mai, e torna forte negli ultimi giorni.
Nel giorno della rivelazione della vocazione, la missione che la voce ci assegna appare immensa, infinita: «Proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito la giustizia sulla terra. (…) Perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri». (42,3-8). Nessuna persona può realizzare una tale missione, nessuno può svolgere questi compiti. Le promesse del giorno della chiamata sono molto più grandi delle nostre possibilità di realizzarle in tutti gli altri giorni della vita. Perché se non sono troppo grandi sono semplicemente troppo piccole. Se nella terra promessa non scorrono latte e miele, se i figli dell’Alleanza non sono numerosi come i granelli della sabbia, non lasceremmo mai la terra di casa, non rinunceremmo a generare i bambini di tutti, come tutti. Nessuna promessa più piccola del paradiso è capace di farci partire sapendo che non torneremo più. Solo un orizzonte infinito è capace di raccogliere quel folle volo.
Per questa ragione, il fallimento e la delusione sono parte dello sviluppo necessario di una buona vocazione – e se non arrivano mai, o non abbiamo incontrato nessuna voce o l’unica voce che ci parlava era il nostro narcisismo. Al primo giorno della promessa impossibile deve far seguito il secondo giorno della promessa tradita: «Io ho risposto: "Un martirio inutile il mio. In un vuoto che crolla la mia forza si è consumata"» (49,4). Il servo di YHWH doveva ristabilire la giustizia, aprire "gli occhi ai ciechi", "liberare i prigionieri", non doveva scoraggiarsi. E invece l’esilio babilonese è lungo e duro, il diritto e la giustizia sulla sua terra sono sempre più distanti; il popolo è fiaccato, non riesce ad aprire gli occhi, i prigionieri non sono liberati. E il profeta si scoraggia. E così molto forte diventa nel profeta la sensazione, che via via si fa certezza, di aver faticato invano, di aver consumato le proprie forze "inutilmente", di aver vissuto in un grande "vuoto". Questo secondo giorno della vocazione, necessario e inscritto nel primo, è il passaggio decisivo di una vocazione profetica, sul quale si infrangono moltissime vocazioni autentiche. E così il secondo giorno diventa l’ultimo, segna la fine del cammino che non approda al "primo giorno dopo il sabato".
In alcuni casi il fallimento e la delusione si esprimono nei confronti di se stessi, dei propri errori, peccati, limiti, e diventano facilmente depressione spirituale e psichica. Altre volte sono le parole della promessa del primo giorno a essere accusate e maledette. Malediciamo – come Geremia, come Giobbe – il giorno della prima seduzione, quando fummo incantati con l’incantesimo, quando un elisir velenoso ha ucciso la nostra giovinezza. In un modo o nell’altro, il serpente morde l’albero della vita, e lo fa seccare. Il canto del servo, però, non termina con il giorno dello scoraggiamento: «YHWH ha parlato e mi ha detto: "È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra"» (49,6). Come a dire: ciò che tu hai pensato fosse il tuo compito era troppo piccolo: tu sei stato chiamato a molto di più. Non sei riuscito a restaurare le tribù di Giacobbe disperse, né a ricondurre il resto di Israele in patria, è vero; ma non era questo il contenuto della tua vocazione. Era già un compito impossibile, ma era troppo poco. Era impossibile perché era troppo poco. Un paradosso, che però si scioglie se guardiamo da vicino la natura delle vocazioni profetiche – ieri e oggi. Molte vocazioni si bloccano, e molti profeti si perdono, perché quando arriva il secondo giorno del fallimento non riescono a capire che ciò che si è spenta non è la loro vocazione ma soltanto la loro interpretazione della vocazione.
Pensavano che la Chiesa da ricostruire fosse la chiesa di san Damiano in Assisi, di aver sposato un Risorto, di dover fondare una nuova comunità carismatica. E invece, nel fallimento del secondo giorno, qualche volta si riesce a capire che la Chiesa da riedificare era un’altra, di non aver trovato un Risorto ma un crocifisso, perché tutte le volte che il Crocifisso risorge viene inchiodato su croci sempre nuove. E capisce che solo da quelle croci continua a risorgere, e soltanto lì può essere incontrato, abbracciato, sposato. E scopre che ciò che doveva fondare era una semplice tenda, alla cui ombra ora può finalmente imparare il mestiere del vivere e poi, nell’ultimo giorno, del morire. È la luce che promana dalla fiaccola di una umile tenda che può essere luce per le nazioni, e solo una tenda mobile può raggiungere le estremità della terra. Le luminarie dei grandi templi che avevamo costruito erano troppo luminose, e oscuravano, a noi e agli altri, la luna e le stelle. I profeti continuano il loro canto quando nel giorno del grande fallimento riescono a comprendere che ciò che appariva come sconfitta era soltanto il dono della libertà più grande. Non era lo scacco matto dell’esistenza, ma solo l’inizio dell’incarnazione vera delle parole che avevano annunciato: «Giubilate, o cieli, rallégrati, o terra, gridate di gioia, o monti» (49,13).
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