Ma quando Cefa (Pietro) venne ad Antiòchia, mi opposi a lui a viso aperto perché avevo torto... Quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: "Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?"
Paolo, Lettera ai Galati
La vita ha una sua pienezza che da sola appaga e sazia. La luna, l’aurora, il tramonto, il dolore, l’amore, uno sguardo, un bambino, sono parole incarnate più concrete e vere delle parole che usiamo per descriverle. Se così non fosse non capiremmo come mai la maggior parte delle persone, ieri e oggi, non sanno comporre poesie né saggi di teologia, ma possono toccare la vita alla stessa profondità del poeta e del filosofo. È questo accesso diretto al mistero dell’esistenza che ci fa davvero tutti uguali sotto il sole, prima delle molte diversità e diseguaglianze buone e cattive. E che, forse, ci fa ogni tanto capaci di sentire una vera fraternità universale con gli animali, con le piante, con la terra, che sentiamo vivi, come noi. Ma, come spesso accade, anche questa infinita ricchezza può trasformarsi, in certi casi, in una forma di povertà. Il primato della vita assume una forza e una portata speciali nella realtà collettive generate da ideali e/o da carismi. La vita viene prima sempre, ma quando quella vita si riempie di spirito e dà luogo a comunità di senso, l’esperienza può diventare così appagante da indurci a credere che non ci sia bisogno d’altro della vita che si sta già vivendo.
«Le cose belle prima si fanno poi si pensano» (don Oreste Benzi). Una frase stupenda e vera. Quando, poi, la vita continua e le comunità crescono grazie a quella prima bellezza, arriva il momento di cominciare a pensare le cose belle che si stanno facendo, e per poterlo fare bene c’è bisogno di categorie culturali "belle" come la vita che si fa. Ma spesso, nell’ebbrezza della pienezza della vita presente, si passa facilmente dal giusto e naturale primato della vita all’assolutizzazione della sua dimensione esperienziale finisce per impedire che quella stessa vita si possa esprimere in tutta la sua bellezza, forza e durata. La pienezza del presente svuota il futuro. Ed è proprio in questa dinamica tra vita-e-basta e la vita che è talmente viva da chiedere di fiorire in cultura, che si incontrano sfide e insidie importanti, spesso decisive. La vita basta, è vero; ma nelle esperienze ideali collettive la vita basta davvero solo se quella vita diventa anche cultura. La storia ci dice che affinché una novità collettiva possa continuare oltre la stagione della sua fondazione, non è sufficiente continuare a vivere la novità. Occorre anche saperla pensare per poterla raccontare con le categorie e le parole giuste, che dovrebbero contenere lo stesso grado di novità dei fatti vissuti.
Nei primi tempi, la personalità dei fondatori, l’energia vitale quasi infinita, la luce accecante della novità, riescono a coprire l’indigenza di categorie e di linguaggio adeguati; per molto tempo si vive e cresce convinti che non ci sia bisogno di nessun lavoro culturale né, tantomeno, teorico. Ma in realtà, e da subito, le comunità non possono non usare categorie e linguaggi per vivere e parlare. E allora o decidono di provare a "fabbricare" gli strumenti che non hanno ancora, o, più semplicemente, li comprano o li prendono in prestito. Ma tanto più una esperienza è originale, tanto meno troverà buoni strumenti già esistenti sul mercato. Anche perché quando nasce una novità comunitaria, quella novità è novità di vita e anche novità di cultura. Ma, a differenza della vita-e-basta, le novità culturali non maturano spontaneamente, occorre un lavoro intenzionale e specifico per farle emergere – e che raramente si fa. Non deve stupire allora che il riassorbimento nella tradizione delle innovazioni generate da comunità e movimenti ideali sia l’esito più comune che l’evidenza storica ci mostra. Perché l’uso di categorie sbagliate e/o vecchie che trova sul mercato produce semplicemente il ridimensionamento della novità che si è vissuta e si vive. La cattiva cultura scaccia via la buona vita.
Molte comunità spirituali (ma anche alcune belle imprese civili e cooperative), rischiano oggi di spegnersi perché non hanno fatto nel tempo opportuno uno specifico lavoro culturale sulla propria identità, e raccontando culturalmente male la propria novità stanno progressivamente perdendo anche forza sul piano vitale. Le categorie culturali sbagliate si trasformano in un letto di Procuste, dove vengono amputate quelle novità che non rientrano nelle misure troppo strette. E ciò che rimane fuori è necessariamente l’eccedenza tra il vecchio il nuovo, cioè le innovazioni più grandi e originali di cui erano portatrici. Per queste (e altre) ragioni nelle esperienze comunitarie ideali il vino nuovo della vita finisce in otri narrativi vecchi, e si disperde. Bellissime esperienze, raccontate con linguaggi inadeguati. Ci sono, poi, alcuni tipici errori che commettono quelle Organizzazioni a movente ideale (OMI) che hanno capito l’importanza della costruzione di nuove categorie culturali. Il primo consiste nel confondere categorie e linguaggio culturali con le categorie e il linguaggio spirituali. Si inizia un primo lavoro, ma ci si ferma troppo presto al linguaggio e princìpi spirituali o religiosi, che sono in genere i primi linguaggi che nascono insieme all’esperienza. Ma il lavoro culturale consisterebbe invece nella trasformazione e universalizzazione sia dell’esperienza sia del suo linguaggio spirituale/religioso, che in questi casi non avviene perché si confonde l’input con l’output del processo. E così la novità non cresce perché confinata in luoghi e linguaggi troppo angusti. La cultura ha bisogno dello spirito e della carne, dell’interezza della vita, se si vuole che quella vita cresca e porti i suoi frutti. In questo tipo di lavoro, indovinare il tempo opportuno è fondamentale, perché è molto più difficile correggere finte categorie culturali, che iniziare da zero. E se passa molto tempo le categorie prese in prestito si introducono nella carne del "carisma", e tutto diventa troppo difficile.
Un secondo errore è pensare che questo lavoro culturale vada affidato a una élite di intellettuali o di professori. Si dimentica così che la cultura è molto più del lavoro intellettuale, perché ha bisogno della vita e del pensiero di ogni componente della comunità, compresi la vita e il pensiero popolare, del lavoro, dei poveri. Si elaborano categorie e linguaggio che non servono la vita, e che finiscono soltanto per allontanare e scartare le persone intellettualmente meno attrezzate, e favorire la creazione di nuove caste. Ci sono, infine, comunità che iniziano il lavoro definendo a priori che cosa gli esperti dovranno studiare al fine di confermarle e rafforzarle culturalmente, senza però metterle in discussione. Non si lavora quindi con quella libertà di spirito che ogni lavoro culturale vero richiederebbe, e si finisce per ridire soltanto le convinzioni pre-culturali che già si sapevano, convinti di aver svolto un lavoro culturale che in realtà non è mai iniziato. Nella storia del cristianesimo, le verità e i dogmi sono arrivati al termine di un luogo lavoro culturale libero e non-dogmatico durato secoli, dal dialogo e dallo scontro aspro con eretici e scismatici, dal crogiolo della dialettica tra visioni molto diverse tra di loro. I racconti delle verità della fede cristiana sono stati fin da subito molti e diversi. Quattro vangeli, le lettere di Paolo insieme a quelle di Giacomo e Pietro, in continuità con una Bibbia ebraica dove coesistevano Giobbe e il Cantico, Daniele e Qohelet. L’Antico e il Nuovo testamento non sono diventati una ideologia sterile perché sono stati plurali e pluralistici, perché hanno detto con voci diverse e in tensione tra di loro verità più grandi e complesse di quelle possibili a un unico racconto. Senza i conflitti tra Paolo e Pietro, avvenuti prima della composizione dei vangeli, quei vangeli sarebbero stati molto più poveri e forse si sarebbero smarriti tra i tanti testi ideologici, apocalittici e gnostici, della Palestina e della Siria.
In molte OMI, invece, si lavora alla mediazione culturale del messaggio ideale con un mandato di ortodossia alle verità non negoziabili, e l’essenziale elaborazione di linguaggio e categorie finisce per diventare un esercizio povero perché monocorde, che produce un rimpicciolimento della vita invece di rappresentarne la sua universalizzazione e fioritura. Diventa un laccio che impedisce il volo libero del carisma, o lo confina nel perimetro della sua gabbia. Alle OMI un solo vangelo non basta per raccontare il proprio miracolo. Il buon lavoro culturale non è mai una semplice traduzione di una realtà già esistente in una realtà sostanzialmente identica, ma raccontata con un altro linguaggio. Questo è tipico delle operazioni ideologiche e dei suoi "intellettuali organici". Il lavoro culturale non è una tecnica, ma svelamento di novità che prima non si vedevano e che non si vedrebbero in sua assenza, è scoprire che realtà che sembrano nuovissime erano invece già presenti nella tradizione, è smascheramento delle infiltrazioni ideologiche abbondantissime nelle OMI e che senza un sistematico e libero esercizio culturale finiscono per soffocare gli ideali e la vita.
Paolo non ha solo tradotto il primo annuncio cristiano, né Bonaventura e Tommaso hanno semplicemente tradotto i carismi di Francesco e di Domenico: hanno innovato e creato realtà che non avremmo senza i loro "carismi". Hanno consentito che gli ideali dei loro fondatori avessero ali più grandi per poter volare più in alto e così giungere fino a noi. In ogni vera operazione culturale si nasconde sempre il rischio dell’eresia e del tradimento, un rischio che spesso blocca sul nascere il lavoro culturale vero e necessario.
Per poter provare a dire l’infinita novità della prima notte di Natale, non bastavano i racconti dei pastori, né quelli di Maria e dei primi discepoli. Senza nuovi carismi, senza tempo e molto lavoro, nessuno avrebbe potuto scrivere che «Il Logos si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi». Il Vangelo è stato capace di incantare e cambiare il mondo anche perché è un racconto meraviglioso. Il primo otre nuovo nel vangelo è il vangelo stesso. Il desiderio di Natale non si è mai spento sulla terra. Siamo noi che da tempo abbiamo smesso di raccontarlo con la bellezza necessaria per incantare oggi i nostri colleghi, i nostri amici, i nostri figli. Che non aspettano altro di sentirsi dire, con parole nuove, che Dio è diventato bambino in una donna, che è nato povero in una grotta, che è rinato dal suo sepolcro. Buon Natale!
l.bruni@lumsa.it