Massimo ristoro e sollievo mi veniva dai conforti degli amici... i colloqui, le risa in compagnia, lo scambio di cortesie affettuose, i dissensi occasionali, senza rancore, come di ogni uomo con se stesso, e i più frequenti consensi, insaporiti dai medesimi rarissimi dissensi; l’essere ognuno dell’altro ora maestro ora discepolo, la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze festose per chi ritorna
Agostino, Le confessioni, IV
La fraternità è una grande parola della Bibbia perché è una grande parola della vita. È un altro nome della felicità. I fratelli e le sorelle fanno parte del paesaggio ordinario di casa, sono componente essenziale della nostra vita. L’amore per i fratelli e per le sorelle non ha le note dell’eros né quelle della philia (non sempre siamo amici dei nostri fratelli, eppure li amiamo molto). È un altro amore, diverso e speciale, che usa il linguaggio della carne e delle viscere (e in questo somiglia a quello per i genitori). Una nota tipica della fraternità è quel dolore viscerale che sentiamo quando una sorella o un fratello si ammala, quando soffre, quando viene offeso o umiliato - vedere una sorella soffrire è per noi maschi uno dei dolori più grandi. C’è poi una gioia tipica e specialissima, forse una delle più grandi sulla terra. È quella che provano i genitori, le madri soprattutto, quando vedono i loro figli che si vogliono bene, quando li vedono stimarsi a vicenda, benedirsi l’un l’altra, consolarsi, difendersi, aiutarsi, fare festa insieme.
Non sorprende che la Bibbia per dire la benedizione-felicità più grande di Giobbe parli dei suoi figli e figlie che mangiavano insieme: «I suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, e mandavano a invitare le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme» (Gb 1,4). Qui è importante il riferimento alle sorelle, perché se già è bello ritrovarsi a far festa tra fratelli, è stupendo ritrovarsi tra fratelli e sorelle, quando le ragazze e le donne con la loro tipica grazia esaltano la charis e la festa della casa. Questa tipica gioia per la concordia dei figli aumenta con gli anni, perché se è bello vedere i propri bambini e ragazzi volersi bene, molto più bello è vederli amarsi da adulti, quando crescono le distanze e i motivi per i dissapori e le divisioni. Forse non c’è fine-vita più bello per un genitore di vedere figlie e figli che hanno custodito l’amore reciproco; come è un amore grande, che si colora di tutti i toni dell’agape, quello di un figlio che preferisce rinunciare a legittimi interessi solo per evitare questa speciale sofferenza ai propri genitori.
Possiamo allora immaginare che il bellissimo salmo 133 sia stato composto, o almeno cantato, da una madre. In un giorno di festa, forse nella sera di Pesah, una donna guardò i figli seduti attorno alla mensa, e nell’intimo del suo cuore le nacque questa preghiera, una delle più belle: «Ah quanto è bello e quanto è dolce che i fratelli siano insieme» (Salmo 133,1). Il salmo della fraternità. La parola ebraica che il salmista usa per descrivere questa speciale bellezza e soavità è twb, la stessa che troviamo nel primo capitolo della Genesi al termine della creazione: "e Dio vide che era cosa molto twb" (Gn 1,31). Forse a dirci che quando i fratelli e le sorelle "siedono insieme" la famiglia ritorna a passeggiare nel giardino dell’eden, torna la primitiva innocenza e purezza, la morte è vinta di nuovo, mangiamo il frutto dell’albero della vita e viviamo in un’e-terna giovinezza - finché qualcuno ci chiama "figlio" siamo ancora giovani. Sono molto belle e profondamente radicate nel linguaggio e nel simbolismo biblico le due metafore che il salmo usa per sviluppare il tema della fraternità: «È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste. È come la rugiada dell’Ermon, che scende sui monti di Sion» (133,2-3). L’olio era segno della consacrazione del sacerdote (Aronne), ma anche del re, del profeta, ed è il gesto che accoglie l’ospite, che viene onorato ungendo d’olio profumato il suo corpo affaticato dal viaggio. Un olio che sovrabbonda, che cola dal capo fino a coprire il volto, la barba e poi scende giù per la veste.
È un’immagine che dice l’eccedenza della fraternità. La fraternità è anti-avara, se ad un fratello non si dà il mantello non si dà neanche la tunica, perché è quanto non dovremmo dare e invece diamo che dice cosa sia un fratello o una sorella. È l’olio che una donna versò sui piedi di Gesù, che valeva dieci volte di più del prezzo del tradimento. L’economo-economista non capisce questo spreco, e continua a rimproverare l’eccedenza non efficiente. Nella fraternità non si presta a interesse, neanche al solo tasso d’inflazione per recuperare almeno le spese. Ai fratelli si dona e basta: prestare è un buon verbo degli affari ma non è un verbo della fraternità - "eccoti i denari che ti servono: me li ridarai quando e se potrai". Un fratello ha la stessa dignità del re, del sacerdote e del profeta, niente di meno; e quando viene a trovarci a casa va onorato come nella Bibbia si onora l’ospite, come Abramo e Sarah accolsero i tre uomini alle querce di Manre, come Salomone la Regina di Saba, come il buon pastore del Salmo 23, come due sorelle accolsero Gesù a Betania. Come la vedova che ospitò Elia nella sua casa e donò al profeta l’ultimo pugno di farina e l’ultimo goccio d’olio rimasto. Ai profeti e ai fratelli, alle sorelle non si dà il superfluo, si dona il necessario, per loro ci si priva dell’ultimo pane. Il pane quotidiano è dono del Padre, ma quasi sempre ci arriva per la mano di un fratello, di una sorella. Quando da grandi lasciamo la casa comune e un fratello giunge nella nostra nuova casa, va onorato come la Bibbia onora l’ospite. E anche se viene a trovarci spesso, il giorno della visita del fratello è il giorno della tovaglia più bella, di un fiore nuovo. Il tempo si ferma e si tocca l’eternità. Le ore passate con i fratelli sono più lunghe, la fraternità ci allunga la vita. Ogni ospite porta una benedizione, ma la benedizione che portano il fratello e la sorella, onorati come angeli, ne porta una infinita.
La seconda immagine è quella della rugiada, parola amatissima dalla Bibbia. La rugiada del monte più alto, che mitiga le lunghe siccità. È sempre sorprendente trovare al risveglio, nelle nostre torride estati, l’erba bagnata dalla rugiada, dono di una freschezza diversa quando l’acqua non c’è. La rugiada è una grande immagine di gratuità, di un dono che è lì per noi, per tutti. Come la rugiada, la fraternità per imperlare di luce il campo della nostra vita ha bisogno di una notte serena e calma di vento. Come la rugiada, la fraternità è quella freschezza donata che accompagna le aridità della vita, che arriva senza guardare alle nostre virtù e ai nostri meriti. La fraternità è anti-meritocratica, sia quando è guardata dalla prospettiva dei genitori, sia quando è osservata con lo sguardo degli altri fratelli - anche se il fratello maggiore della parabola sta lì a ricordarci che la meritocrazia è una tentazione della fraternità, che se non vinta ogni giorno produce le varie forme del fratricidio.
L’olio che cola dalla barba di Aronne dice poi un altro elemento fondativo della fraternità, che è l’altra faccia dell’eccedenza: lo spreco buono. Come per altre parole prime della vita, lo spreco è bifronte, ha un volto cattivo e uno buono. Quello buono appartiene alla fraternità, che vive anche di spreco: di tempo, di parole, di cibo. Lo spreco di tempo scaccia la fretta, la nemica di tutte le relazioni primarie. Lo spreco delle parole è la benedizione delle serate e notti infinite spese a dire con cento parole quello che potremmo dire con dieci, perché quelle novanta sprecate sono le parole che ci doniamo l’un l’altro liberati dalla schiavitù dell’efficienza. E non c’è festa di famiglia dove il cibo non eccede il necessario, dove ciò che sembra spreco è solo celebrazione di un bene più grande, è linguaggio arcaico e profondissimo per dire che quelle ore passate assieme valgono più del Pil nazionale, che questo bene relazionale è il bene più grande. Nei pasti della fraternità se non si mangia troppo noni si mangia abbastanza. E anche quando la povertà ci offre solo cinque pani e due pesci, alla fine dobbiamo portar via sette scorte di avanzi.
Eppure, nonostante tutta questa bellezza, la Bibbia ci presenta la fraternità naturale come qualcosa di ambivalente, e in genere di problematico. Abele, il primo fratello è un fratello assassinato. Giacobbe e Esau lottano, combattano e si separano, poi Lea e Rachele, le due sorelle rivali, quindi Giuseppe venduto dai suoi fratelli, Iefte cacciato via dai suoi fratellastri, la violenza di Amnon su Tamar, fino al fratello del figliol prodigo. Nella Bibbia sono pochi e rari i casi di fratelli e sorelle che si amano come quelli del Salmo 133. Forse per dirci che la fraternità del sangue, per quanto grande e spesso meravigliosa, non è sufficiente per capire l’umanesimo biblico, il nuovo popolo, l’alleanza, la nuova e diversa fraternità universale biblica e poi cristiana. E così, per indicarci la sua nuova fraternità sganciata dal sangue, la Bibbia non si accontenta di lodare la fraternità naturale, e ne mette in luce la sua insufficienza. Anche noi sappiamo che la prima fraternità naturale non è pieno umanesimo se non fiorisce in una seconda fraternità. Non si resta fratelli e sorelle per tutta la vita se ad un certo punto quel legame di sangue, già grande e bello, non diventa grandissimo e bellissimo fiorendo in agape.
I fratelli e le sorelle restano fratelli e sorelle fino alla fine se un giorno diventano anche amici, madri, padri, l’uno dell’altra. La fraternità è aurora, è rugiada; ma quel sole non mantiene a mezzodì tutta la luce dell’alba se il sangue non diventa spirito, e se non rinasciamo in questo spirito. Ma la Bibbia ci ha voluto donare anche il Salmo 133 con la sue splendide parole, perché mentre ci ricorda che la fraternità si compie morendo nella carne e risorgendo nello spirito, quei fratelli e sorelle che siedono insieme sono tra le cose più belle sotto il sole: «Perché là il Signore manda la benedizione, la vita per sempre» (133,3).
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