Quanto più a lungo si protrae il nostro sradicamento dall’ambito vitale che ci è proprio, sia dal punto di vista professionale che da quello personale, tanto più fortemente ci è dato percepire che la nostra vita, a differenza di quella dei nostri genitori, ha un carattere frammentario. La nostra esistenza spirituale resta incompiuta
Dietrich Bonhoeffer, Lettera a Eberhard Bethge, 1944
L’ideologia è l’anti-speranza. La speranza nasce dentro la realtà imperfetta dell’oggi e si nutre di un domani migliore che ancora non conosce ma attende. È la virtù-dono degli attraversamenti dei deserti, quando si cammina nell’arsura sapendo che alla fine ci aspetta una terra promessa, che è reale anche se nessuno l’ha mai vista. La speranza ci fa vedere Canaan mentre siamo ancora a nelle acque di Meriba. L’ideologia, invece, vive di un oggi già perfetto, e non attende nulla di ciò che non conosce già. Ci lascia schiavi in Egitto per tutta la vita, ma ha la capacità straordinaria di trasformare la schiavitù delle fabbriche di mattoni nel "paese dove scorre latte e miele". La terra promessa è quella che si abita già. Tipica del malato di ideologia è quindi l’assenza di sorprese e di stupore. Non si può stupire perché non c’è nulla che gli interessi del mondo presente e futuro che non sia già accaduto, conosciuto, perfettamente controllato e dominato. Lo stupore ha bisogno dell’ignoranza (solo i bambini forse si stupiscono veramente) e del desiderio che nasce dalla consapevolezza che la vita è qualcosa di meraviglioso le cui pagine più belle devono ancora essere scritte. E ci aspettiamo tutto, sempre, davvero. Ma quando ci siamo convinti di essere entrati finalmente in possesso del segreto della vita e di conoscere tutto ciò che c’è da conoscere sotto il sole, non resta più nulla da attendere né da sperare. Si spengono i desideri, e iniziamo a morire. L’ideologia è la trasformazione dell’idea in realtà, e lo "scarto" che resta tra l’ideale e il reale viene negato o vissuto come un male, un peccato, uno scandalo. La speranza, invece, coltiva e accudisce il reale di oggi perché possa fiorire domani in qualcosa di nuovo, e lo scarto è il terreno del desiderio e dell’attesa. Il già dell’ideologia maledice il non ancora, la speranza lo benedice perché lo vive come inizio dell’avveramento della promessa.
La Bibbia è anche un grande trattato sulla nascita, sviluppo e giustificazione delle ideologie. È una sintassi e, spesso, una semantica della natura tremenda del pensiero e dell’agire ideologico. Quel popolo ha visto Gerusalemme invasa, il tempio diventare un mucchio di macerie, i re e i ministri uccisi e deportati. Hanno creduto ai falsi profeti, si sono nutriti di illusioni, non è rimasto nulla del loro regno. E ora, nonostante tutta l’evidenza contraria, continuano a produrre ideologie, a offrire una loro interpretazione di quella rovina. Geremia può solo raccontare un’altra storia, quella di sempre, perché è l’unica storia che conosce: «Geremia disse a tutto il popolo: "Forse che il Signore non si ricorda e non ha più in mente l’incenso che voi bruciavate nelle città di Giuda…? Il Signore non ha più potuto sopportare la malvagità delle vostre azioni né le cose abominevoli che avete commesso… Non avete camminato secondo la sua legge, i suoi decreti e i suoi statuti, per questo vi è capitata questa sventura, come oggi si vede"» (Geremia 44, 20-23).
Giunti ormai quasi alla fine del nostro commento al libro di Geremia, dobbiamo tentare di rispondere a una domanda difficile, ma ineludibile: e se l’ideologia fosse stata quella di Geremia? E se l’interpretazione di Geremia fosse diventata quella vera solo perché fatta propria dall’élite di intellettuali che fissarono il canone? E se era il culto alla "regina del cielo" ad essere quello vero, quello buono della gente semplice, delle donne umili e oppresse? Chi ci dice che Geremia parlava nel nome del Dio vero e i suoi connazionali in nome degli idoli sbagliati? Nessuno ce lo può dire con certezza, né possiamo escludere che alcune di queste cose siano accadute realmente. Come nessuno ci può garantire che Geremia e tutti i profeti biblici fossero soltanto degli auto-ingannati come tutti gli altri falsi profeti, nevrotici convinti di ascoltare voci che non c’erano. O che furono le vicende e i conflitti interni al potere religioso di Israele a far chiamare "veri" e buoni gli oracoli di alcuni profeti, e falsi tutti gli altri; e che la scuola rabbinica che a un certo punto scelse Geremia o Isaia come profeti occultò gli oracoli di altri profeti suoi concorrenti. Questa domanda è una domanda seria perché sta alla radice dell’intera Bibbia e di ogni umanesimo religioso (e forse anche laico), perché è, semplicemente, di quella grandissima esperienza umana che si chiama fede. La fede è prima di tutto fiducia in un racconto di un’esperienza storica di un rapporto tra un popolo e il suo Dio. Prima c’è questa fede, e poi viene l’esperienza soggettiva di credere all’esistenza di Dio. Possono anche venire contemporaneamente, ma la prima è quella decisiva. Anche perché quando credere in Dio non è o non diventa credere alla parola di quelle persone concrete che quel Dio me lo hanno raccontato dentro le vicende della loro storia, quella credenza dura poco, serve a pochissimo, non incide nella vita, e se incide fa solo del male. Senza prima credere nel capitale narrativo dei padri e delle madri nella fede, non sapremo mai se quella voce che un giorno ci ha chiamato per nome era un fantasma, un idolo, un auto-inganno, o semplicemente un nulla.
Questa fede non è una garanzia, né una rassicurazione che non stiamo credendo a una storia non vera. La libertà del credente sta proprio nella possibilità reale di aver creduto a un grande inganno collettivo, sta qui la sua bellezza e il suo rischio. La fede può non essere un’illusione perché è possibile che lo sia – e quando iniziamo a essere sicuri dell’impossibilità dell’illusione stiamo già calpestando il terreno dell’ideologia. Troppe persone non riescono a maturare dentro esperienze collettive di fede perché non sono educate ad abitare questo rischio esistenziale, e così crescono con fedi troppo piccole per farle diventare persone adulte.
Il dio astratto diventa concreto quando qualcuno raccontandomi una storia mi dice quale è il nome di Dio. E nella Bibbia il nome è anche l’incarnazione dell’idea di Dio in una esperienza storica e concreta, il Logos che viene ad abitare in mezzo a noi. Il nome è una parola rivelata in un incontro concreto tra un uomo con un nome (Mosè) e una voce, sulle pendici di un monte con un nome (Oreb), per liberare un popolo schiavo in un luogo (Egitto). Nome dice storia, geografia, comunità, tradizione. Per questo il nome YHWH è custodito nel cuore stesso della Legge, è l’intimità di un rapporto concreto e vivo, che va pronunciato senza pronunciarlo.
Non stupisce allora che alle donne che «preparavano focacce per la regina del cielo con la sua immagine» (44,23), Geremia risponda: «Adempite pure i vostri voti e fate pure le vostre libagioni. Tuttavia ascoltate la parola del Signore, voi tutti di Giuda che abitate nella terra d’Egitto. Ecco, io giuro per il mio nome grande, dice il Signore. Mai più il mio nome sarà pronunciato in tutta la terra d’Egitto dalla bocca di un uomo di Giuda che possa dire: "Per la vita di YHWH!"» (44,26). All’immagine della regina del cielo impressa sul pane, Geremia contrappone il nome. Il nome non è l’immagine. Nella Bibbia, l’unica immagine vera e buona di Dio è l’Adam. Ma noi non siamo il nome di Dio. Siamo fatti a sua immagine, ma non ereditiamo il suo nome.
Questo dialogo tra nome e immagine ci apre qualcosa di importante dell’umanesimo biblico e della sua antropologia. La Bibbia ci dice che nel nostro essere portiamo impressa l’immagine di Dio, ma non portiamo il suo nome. A differenza delle generazioni umane, il Dio biblico è un Padre che non imprime il suo nome in quello dei suoi figli. Ci lascia il nostro nome e ci imprime la sua immagine. La nostra libertà è talmente grande da essere anche libertà dal nome del Padre, ma non dall’immagine che resta anche nei figli di Caino.
Chi vuole leggere la parola di Dio sulla terra ha la Bibbia e altri testi sacri (e profani: molta letteratura e poesia). Chi vuole udire la voce di Dio può ascoltare i profeti. Ma chi vuole vedere la cosa più divina presente sotto il sole può solo guardare la cosa più umana che c’è sulla terra: un uomo, una donna. È per salvare questa altissima dignità degli umani che la Bibbia non ci consente di rappresentare altre immagini della divinità. Sarebbero meno belle e vere di quelle che già abbiamo attorno a noi, ogni giorno, guardandoci l’un l’altro. Quando sulla terra apparve il primo uomo, l’universo ha capito qualcosa in più dell’immagine di Dio.
Rappresentare una divinità su una focaccia o su una pietra dice giàall’uomo biblico che quel Dio rappresentato è un idolo, perché, ci dice: l’unica immagine buona di quel nome sei tu. Sta anche qui una radice della povertà pittorica della tradizione del popolo d’Israele: la proibizione di rappresentare l’immagine di YHWH è diventata anche un freno a rappresentare l’immagine della sua immagine. Non siamo Dio, ma gli assomigliamo molto. Siamo la cosa che più gli somiglia sotto il sole. Gli somigliamo al punto che la prima e più grande tentazione dell’uomo è fare di se stesso dio, e quindi diventare idolatra di se stesso.
Queste sul "nome" sono le ultime parole di Geremia. Poi uscirà di scena senza che Baruc ci narri la fine della sua vita, forse per non rischiare che le vicende della sua biografia eclissassero la sua parola non-sua. Ma sarà con la stupenda benedizione di Geremia a Baruc che concluderemo domenica prossima la nostra ricerca dell’alba dentro la mezzanotte. Nel frattempo sostiamo e riposiamo il cuore contemplando l’immagine più bella sotto il sole, che risplende e rischiara anche le notti più buie del mondo.
l.bruni@lumsa.it