Ma come può Giosia ignorare Geremia e inviare emissari a Hulda? I saggi risposero: Perché le donne sono più compassionevoli, e quindi sperava che ciò che avrebbe detto loro non sarebbe stato eccessivamente duro
Talmud Megillah14b
Un padre giusto e un grande miracolo non sono una garanzia che i figli continueranno a scrivere una storia giusta e buona. Dopo Ezechia, re buono e fedele che salvò Gerusalemme per la sua fede in Dio, in Giuda si susseguono due re malvagi, Manasse e Amon (2 Re 21), che riedificano gli altari agli dèi stranieri, riprendono e riattivano gli antichi culti popolari cananei che non si erano mai spenti tra la gente. Dopo la bella parentesi di Ezechia, ritorna l’idolatria, l’antica malattia di Israele – e di tutti gli uomini, che sono costruttori infaticabili di idoli per divenirne adoratori: siamo consumatori di molte merci, ma prima e sopra tutto siamo consumatori di idoli.
Nel ciclo dell’alternanza del bene e del male, dopo Amon arriva Giosia, il nuovo Davide, amatissimo dalla Bibbia almeno quanto il suo avo Ezechia: «Quando divenne re, Giosia aveva otto anni; regnò trentun anni a Gerusalemme... Fece ciò che è retto agli occhi di YHWH» (2 Re 22, 1-2).
Giosia si presenta come un restauratore del tempio. Il testo descrive i lavori con parole molto simili a quelle che il capitolo 12 aveva utilizzato per i restauri del re Ioas. Di nuovo l’argento, raccolto dai "custodi della soglia" viene fuso, trasformato in monete e consegnato ai carpentieri e ai muratori. La descrizione della fabbrica del tempio si chiude con le stesse parole usate per il restauro di Ioas: «Non si controlli il denaro consegnato nelle loro mani, perché lavorano con onestà» (22, 7). Le parole buone sull’onestà e sulla lealtà dei lavoratori non si devono mai tacere, soprattutto quando le incontriamo nella Bibbia; e soprattutto oggi, quando prima dei posti di lavoro abbiamo bisogno di parole buone sui lavoratori, di benedizioni del lavoro, senza le quali i posti di lavoro non ci sono o sono cattivi.
I lavori di restauro producono uno degli eventi più importanti della Bibbia: da quel cantiere emerge un libro: «Il sommo sacerdote Chelkia disse allo scriba Safan: "Ho trovato nel tempio di YHWH il libro della Legge (Sefer hat Torà)"» (22, 8). Un ritrovamento eccezionale. Non sappiamo quanto ci sia di storico in questa scoperta, essendo comune nella letteratura antica coeva poggiare una riforma religiosa sul ritrovamento di un testo, reale o immaginario, che diventava mito fondativo della nuova età. Si è scritto molto su questo ritrovamento. Per alcuni storici quel libro era una prima versione di quello oggi conosciuto come libro del Deuteronomio, o di quella sua parte che contiene la Legge di Mosè (Torà). Un muratore, o forse un gruppo di teologi, ritrovò nel tempio o nel mito una fondazione più antica della loro fede, su cui un gruppo di riformatori, in un tempo di corruzione religiosa fondò la sua riforma.
Non è raro che la minoranza profetica che vuole una riforma radicale basi la sua azione su qualcosa di più antico, perché in quell’antico c’è qualcosa di puro e genuino che nel tempo si è contaminato ed è decaduto. Qualche volta questo "qualcosa" è una tradizione dimenticata, alcune parole del fondatore cancellate dal tempo; altre volte è un testo, un libro, una lettera, un "vangelo" smarrito o considerato dai più apocrifo, che invece, per i riformatori, conteneva un messaggio autentico. Nel mondo antico, inclusa la Bibbia, ciò che era più antico era anche più vero. In quella cultura c’era la convinzione che l’inizio contenesse il principio ideale, che lì vi fosse la promessa prima che arrivassero i nostri compromessi, il patto prima delle nostre infedeltà. C’era la certezza che per uscire dalla crisi del presente la principale e forse unica risorsa fosse un passato diverso, quella terra incontaminata e ancora fertile per generare futuro – «in principio non era così». Come quando, precipitati dentro un orizzonte accorciato e abbuiato, sentiamo che per ridonare nuova vita al nostro rapporto dobbiamo tornare ai giorni del primo amore, a quelle parole diverse capaci di pronunciare una speranza infinita. Capiamo che dobbiamo provare a rivedere il cuore dell’altro e il nostro come lo abbiamo conosciuto in quel primo patto, e poi fare in modo che quel passato risusciti il presente che appare morto. Non è nostalgia, è il suo opposto: nella Bibbia si chiama memoria. In questi atti non si guarda indietro, si guarda solo avanti. Come Mosè, che dal Monte Nebo non guardava l’Egitto ma il Giordano. A volte quel testo antico lo si ritrova davvero dentro un "restauro" di un’opera, emerge come dono da un lavoro sulle fondamenta. Altre volte il libro si "crea’", nasce dall’ascolto del dolore della gente. La storia può essere "prodotta" oggi da un amore più grande, perché il libro può essere generato dalla carne e dal sangue di chi crede che quell’origine non sia persa per sempre e può risorgere. Le identità, individuali e collettive, sono sempre creazioni del <+CORSIVO50>presente<+TONDO50>, anche quando partono dal passato.
Il re giusto Giosia partì dal ritrovamento di un libro antico, e riformò il culto: distrusse gli altari pagani che popolavano la sua regione, eliminò dal tempio i prostituti sacri, cacciò i sacerdoti cananei, distrusse anche l’antico altare sacro di Betel (23, 4-14). Inoltre «Giosia rese impuro il Tofet, che si trovava nella valle di Ben-Innòm, perché nessuno vi facesse passare il proprio figlio o la propria figlia per il fuoco in onore di Moloc» (23, 10). Ogni buona riforma comincia non uccidendo più i bambini, smettendo di passarli per il fuoco per offrirli ai vari Moloc.
La riforma di Giosia fu un passaggio essenziale nella storia della salvezza. Perché segnò il passaggio dal tempio al libro, che divenne centro e "luogo" della fede. Un’operazione che si rivelò decisiva per il tempo dell’esilio che presto sarebbe arrivato. Israele riuscì a sopravvivere settant’anni senza tempio, perché Giosia e quella scuola di scribi e sacerdoti avevano spostato l’asse dal tempio al libro. La Torà divenne il tempio mobile, la nuova Arca dell’alleanza che seguiva la carovana nel mondo e nel tempo, nelle mille diaspore e distruzioni. Quella distruzione di Giosia divenne la possibilità di conservare la fede dentro altre distruzioni devastanti e totali.
Colpisce in questi versetti la forza della distruzione creatrice di Giosia: «Il re comandò... di portare fuori dal tempio tutti gli oggetti fatti in onore di Baal, di Asera e di tutto l’esercito del cielo... Destituì i sacerdoti creati dai re di Giuda per offrire incenso sulle alture... e quanti offrivano incenso a Baal, al sole e alla luna, ai segni dello zodiaco e a tutto l’esercito del cielo» (23, 4-5). Senza il coraggio della distruzione non si porta a termine nessuna riforma seria, perché la corruzione consiste quasi sempre nell’accumulo – progressivo, continuo, non intenzionale – di cose, idee-ideologie-idoli, pratiche, tradizioni, che entrano poco a poco nel "tempio" della città e dell’anima; e così quel luogo nel quale all’inizio c’era "soltanto una voce", quella nudità parlante di infinito dove avevamo un giorno toccato il cielo, viene riempita di manufatti, fino a rendere impercettibile il suono della prima voce. Ma lo sgombero dei locali è molto costoso – noi e i nostri amici ci affezioniamo troppo ai manufatti sacri –, e così quasi tutte le riforme falliscono per l’incapacità di sostenere il dolore della distruzione. Perché la riforma è l’operazione di svuotamento per tornare al nudo tempio, e poi pregare e sperare che la voce torni a parlare. Non sempre la voce torna, perché il tempo delle voci è spesso quello della giovinezza; ma è preferibile un tempio vuoto e muto a un tempio pieno con voci finte, perché finché lo spazio resta disabitato possiamo sempre sperare di udire in quel silenzio una voce diversa, fosse anche la voce dell’ultimo angelo.
Importante, poi, in questo capitolo fondamentale, è l’entrata in scena di una delle profetesse nominate esplicitamente nella Bibbia: Hulda (o Culda). Giosia rimane scioccato dalle parole del libro ritrovato (quelle dove si annunciano le sventure del popolo dovute alle sue infedeltà), e vuole una prova dell’autenticità di quel libro. Nella Bibbia i "certificatori" della parola vera di YHWH erano i profeti: «Il sacerdote Chelkia, insieme con Achikàm, Acbor, Safan e Asaià, si recò dalla profetessa Culda, moglie di Sallum...; essi parlarono con lei» (22, 14). La profetessa Hulda convalida quella parola come parola di YHWH, e profetizza che Giosia verrà risparmiato dalla distruzione di Gerusalemme. Hulda profetizza con parole molto simili a quelle di Geremia, che invece qui non viene nominato, sebbene in quel periodo (attorno al 620-622) fosse già attivo in città.
Perché viene consultata una profetessa, una donna, e per un parere di estrema importanza? Una domanda che si sono fatti in molti, già nei tempi antichi, ipotizzando qualche risposta. Non abbiamo dalla Bibbia molti altri elementi su Hulda. Da Ezechiele sappiamo dell’attività di profetesse in Gerusalemme, da lui condannate per aver «disonorato YHWH» (Ez 13, 19). Secondo alcuni studiosi è possibile che in quel tempo difficile del pre-esilio e poi dell’esilio vi fosse un conflitto tra profeti, e Hulda fosse stata esclusa dalla narrazione ufficiale in quanto sconfitta da profeti più potenti e famosi. Secondo un recente e controverso studio di Preston Kavanagh (Huldah: The Prophet Who Wrote Hebrew Scripture, 2012), Hulda fu invece una figura fondamentale nella Bibbia (addirittura scrisse o influenzò un terzo delle scritture ebraiche). Il suo nome, anagrammato, comparirebbe 1.773 volte nella Bibbia, poiché, secondo Kavanagh, gli «scrittori biblici usavano l’anagramma come gli scrittori moderni usano il corsivo per sottolineare un punto» (p.12). Una tesi estrema, difficilmente difendibile (es: i nomi biblici che nella Bibbia si possono formare come anagramma di Huldah sono molti), che comunque ci ricorda l’importanza delle profetesse e delle donne nell’umanesimo biblico; un’importanza che fu maggiore di quello, già notevole, che la Bibbia attesta. Perché tutti sappiamo che c’è una grande affinità tra donna e profezia.
Hulda in ebraico significa donnola (o martora), nome che, secondo il Talmud, si meritò per avere osato chiamare il re semplicemente "uomo" («Dì all’uomo che ti ha mandato a me»; 22, 15).
Le profetesse riescono a chiamare i re per nome. Le donne, più dei maschi, sanno che i potenti sono uomini, come tutti. Lo ricordano a loro, lo ricordano a noi, a partire dalle mure domestiche. È questo un dono immenso per i potenti e per tutti. Dono delle donne, dono delle profetesse, dono della profezia. Senza profezia i capi fanno i re sempre e ovunque. Non sperimentano mai la reciprocità tra uguali, quindi non conoscono la felicità. Vivono tristi nella loro solitudine dorata, circondati da adulatori e ruffiani. E alla lunga, non riuscendo a essere uomini come tutti, diventano disumani. Anche per questo la profezia è risorsa essenziale della terra.
l.bruni@lumsa.it