Il grido di dolore del cavalier Antonius, nella partita a scacchi con la morte, rappresentata in maniera geniale da Ingmar Bergman ne Il settimo sigillo, ci raggiunge e ci interpella. È il grido che si leva da ogni situazione drammatica, come quella che stiamo attraversando: “[…] il mio cuore è vuoto. Il vuoto è uno specchio che mi guarda. Vi vedo riflessa la mia immagine e provo disgusto e paura. […] è così crudelmente impensabile percepire Dio con i propri sensi? Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, che mi sveli il suo volto, mi parli”: sentire e percepire Dio, ascoltarne la voce onde intravedere un senso nel buio/vuoto dell’esistenza, che vive il dramma della propria fragilità e dei propri limiti. È quanto emerge dai dati della ricerca Nella Chiesa che cambia?, svolta nel periodo 24-28 aprile 2020 dall’associazione/rivista Nipoti di Maritain, con un questionario lanciato sui social cattolici italiani e di cui, alla vigilia del ritorno alle celebrazioni col popolo, si pubblicano i risultati.
Il sentire/percepire Dio del credente cattolico si coniuga con il sentire nella Chiesa. Se è vero che nel momento epocale che viviamo si assiste ad una deriva emozionale della fede cristiana e dell’esperienza religiosa in genere, bisogna tuttavia anche sottolineare che l’emozione può tramutarsi in autentico sentimento, nell’orizzonte di quel sentire cum ecclesia, caro a Ignazio di Loyola e magnificamente espresso dal grande teologo di Tubinga Johann Adam Möhler, nel suo capolavoro intitolato Simbolica (1832), nel quale si confrontano cattolicesimo e protestantesimo a partire dai testi confessionali delle due confessioni. Nell’orizzonte di questo sentire si innestano germi preziosi che le nuove modalità del vissuto hanno messo in atto, nella situazione di emergenza che si è determinata, con l’interruzione delle celebrazioni aperte al pubblico.
Un primo dato, che ci auguriamo corrisponda alla realtà, si coglie nell’attenzione alla Parola di Dio. Per il credente cattolico non si tratta innanzitutto di prendere in mano un libro e leggerlo (pratica senz’altro da incoraggiarsi). Non siamo una religione del Libro. La voce della Parola è la Chiesa e questa voce ha raggiunto i fedeli nelle loro case attraverso i monitor televisivi e gli schermi dei computer, dei tablet e degli smartphone veicolata da forme devozionali, da praticare non finalizzate a se stesse, ma appunto all’ascolto della Parola di Dio, che ne costituisce l’anima profonda e imprescindibile, come i misteri della vicenda del Signore nella recita del rosario, le cui preghiere sono per lo più tratte dalle Scritture sante. Così la Parola si proclama e si ascolta e da essa si genera la fede che salva (fides ex auditu), di cui la devozione costituisce l’involucro emotivo. Si è così offerta la possibilità di “sentire”, “percepire” la presenza di Dio a sostegno delle nostre debolezze, infermità, timori.
Attraverso lo streaming delle celebrazioni, la loro esposizione televisiva e le tante esperienze di zoomworship (culto attraverso una delle piattaforme più utilizzate per incontri comunitari) il messaggio del Vangelo è entrato nelle nostre dimore, sperando anche che abbia penetrato il nostro vivere quotidiano, dal quale non ci siamo potuti estraniare. Questo innesto non dovrà decadere ed essere abbandonato, in quanto costituisce una modalità di autentica evangelizzazione, con l’utilizzo della tecnica e dei suoi splendidi meccanismi al fine di annunciare la buona notizia a tutti e a ciascuno. Il deserto ci mette di fronte all’essenziale, purificando la nostra fede e ridonandole la sua vitalità generativa, capace di improntare la vita di ogni giorno e il suo luogo.
La Chiesa non è finalizzata a se stessa, ma al Regno di Dio. Non è un luogo esclusivo di culto, perché essa si genera e vive dove si comunica la fede. La liturgia delle ore, il pregare i salmi con Cristo (direbbe D. Bonhoeffer) ha una vera e propria valenza cultuale e, sempre se i dati non mentono, ha consentito alla comunità credente di recuperare la dimensione domestica della vita religiosa, così come accadeva agli inizi del cristianesimo, quando la domus (non il tempio o la sinagoga) era la chiesa e in essa si raccontava la storia di Gesù di Nazareth e si spezzava il pane per renderlo vivo e presente fra coloro che credevano in lui. In tale modalità si è declericalizzata la fede e il ritorno alla celebrazione pubblica dell’eucaristia potrà nutrirsi di questa fondamentale caratteristica del culto cristiano: la partecipazione viva e non meramente passiva dei fedeli laici ai divini misteri.
Se questi sono i germi di fede che possiamo raccogliere da quella che da più parti si descrive come rinascita del sentimento religioso, bisogna che i frammenti vengano raccolti, perché nulla vada perduto, ma tutto di nuovo rinnovato e trasformato, perché nel domani non si viva un semplice ritorno al passato, ma una percezione del Dio di Gesù Cristo e della sua presenza nel mondo davvero nuova, nello spirito non di un circolo che si chiude, ma di una spirale che, mentre ritorna sui propri passi, apre e indica il senso dell’esistenza a chi si sente smarrito e ferito, solo e abbandonato e invoca Dio perché faccia sentire la sua voce, senza per questo necessariamente produrre il miracolo della fine della pandemia, che pure insieme alle altre appartenenze religiose e confessionali abbiamo invocato nei giorni scorsi.