Nei giorni scorsi, in seguito alle dichiarazioni di alcuni presidi di licei milanesi (tra gli altri il Parini, il Beccaria e il Virgilio), si è accesa l’ennesima polemica in merito all’insegnamento della religione cattolica (Irc) nella scuola statale. A fronte della cronica carenza di insegnanti di sostegno per gli alunni con disabilità, qualcuno considera uno 'spreco' di risorse pubbliche pagare i docenti di religione, tanto più che ci sono istituti dove i ragazzi che decidono di non avvalersi di questo insegnamento prevalgono numericamente su coloro che scelgono di seguirlo. Tale polemica appare decisamente pretestuosa: se è giusto e doveroso denunciare una mancata copertura di posti sul sostegno che si traduce in una discriminazione inaccettabile per gli alunni che hanno diritto a una cura particolare, non ha senso l’accostamento con la posizione dei docenti di Irc, sancita peraltro da precise norme concordatarie. Diciamolo chiaramente: per un adolescente è una tentazione troppo forte la possibilità di fare un’ora in meno di scuola a settimana, giacché nella maggior parte degli istituti non vengono attivati gli insegnamenti alternativi all’Irc, che pure sarebbero previsti dalla normativa vigente, e così la scelta di 'non fare religione' si traduce automaticamente in un’entrata posticipata o in un’uscita anticipata (i colleghi di Irc sono quelli che hanno quasi sempre le prime e le ultime ore di ogni mattinata, proprio per favorire questo meccanismo). Non c’è dubbio che per quanto riguarda l’Irc debba essere garantita la libertà di scelta, poiché si tratta di una questione che attiene alla coscienza, soprattutto in un contesto che si va facendo multietnico e multireligioso come quello della scuola italiana. Tuttavia mi spingo a dire che a seguire l’Irc con maggiore profitto sarebbero soprattutto gli alunni non credenti o provenienti da altri confessioni religiose. Questo perché non c’è alcuna disciplina dei nostri
curricula scolastici rispetto alla quale il fattore religioso sia indifferente. Ciò vale soprattutto per le materie umanistiche (storia, filosofia, letteratura, storia dell’arte), ma anche, seppure in misura minore, per quelle scientifiche (si pensi a scienze naturali o biologia, quando siano declinate in una prospettiva storica e confrontate con le sfide etiche che suscitano oggi). Mi è capitato di recente di interrogare una studentessa di Lettere a un esame universitario di letteratura italiana. Alla mia richiesta di spiegare il significato del celebre
incipit dell’ultimo canto del Paradiso di Dante («Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio / ...») mi ha risposto di trovarsi in difficoltà per il fatto di non essere cattolica. Al che le ho fatto osservare che non credo in Giove, Giunone e Venere, ma che se leggo l’Eneide, per capirci qualcosa, non posso fare a meno di documentarmi sull’Olimpo classico.Ogni giorno riscontro, dal duplice osservatorio dei luoghi in cui insegno, la scuola superiore e l’università, quanto l’ignoranza di tanti studenti in materia religiosa comprometta la loro capacità di accostarsi in maniera consapevole al patrimonio storico-artistico oggetto di studio. Di sempre più difficile comprensione risultano ad esempio
I promessi sposi, non solo per una lingua ormai lontana dalla nostra, ma anche e soprattutto per l’incapacità di decodificare l’orizzonte culturale di Manzoni. Nel quarto capitolo del romanzo Lodovico, dopo aver ucciso l’uomo con cui si è scontrato, riceve una notizia per lui consolante dal sacerdote che è accorso a confessare il moribondo prima che spirasse: «Consolatevi, [...] almeno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo». Che cosa significa «è morto bene»? Quando, leggendo quel passo, mi capita di chiederlo ai miei studenti del liceo, mi sento rispondere che l’uomo è morto senza soffrire. Nessuna idea di che cosa sia, dal punto di vista cristiano, una «buona morte», una morte santa, in grazia di Dio. Neppure appare chiaro ai ragazzi il senso della frase che più avanti, nel capitolo quinto, fra Cristoforo rivolge a Lucia e ad Agnese quando si reca presso di loro: «Dio vi ha visitate». Nessuna idea della sofferenza come prova della fede e vicinanza dell’uomo a Cristo nella condivisione della sua passione. Nel capitolo settimo, di fronte all’ira di Renzo verso don Rodrigo, il frate invita il giovane a pazientare fintantoché lui non troverà qualche rimedio: «Non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia? Il tempo è suo; e ce n’ha promesso tanto!». Che cosa vuol dire che Dio «ci ha promesso tanto tempo»? La risposta che in genere ricevo è che il cappuccino intende dire che la vita di Renzo e Lucia sarà lunga. Nessuna idea della vita eterna. Potrei continuare con tanti altri esempi di questo tipo, che non riguardano solo scrittori cattolici come Manzoni, ma anche autori 'laicissimi' come – poniamo – Leopardi, nella misura in cui anche gli autori atei non possono fare a meno di confrontarsi con il tema della fede. Oggi, invece, questo confronto viene rifiutato a priori da alcuni studenti, spalleggiati – questa è la cosa che più spiace – da educatori che affrontano la questione dell’Irc in maniera scorretta perché puramente ideologica.