Afp
Legale o illegale? Moralmente giustificato o no? Sono quesiti diversi, ma ugualmente importanti e pressanti, sull’omicidio mirato (ma non troppo, dato che i morti sono stati otto) di Qassem Soleimani. Il Dipartimento di Stato americano da subito non ha avuto dubbi sulle risposte da dare, né sembra averne Mike Pompeo, che martedì ha parlato di un’azione «legale e giusta», oltre, naturalmente, ai proclami trionfalistici del presidente Trump. Le cose sono però più complicate, come hanno spiegato numerosi giuristi (e come molti non esperti hanno intuitivamente pensato). Basta dire che un alto funzionario di un altro Paese è una «persona malvagia» e una «minaccia» alla sicurezza nazionale americana per giustificare la sua uccisione in una nazione terza? Gli omicidi mirati in genere vengono difesi dagli Stati che li praticano in quanto 'difesa preventiva' da atti terroristici nel quadro di un 'diritto di guerra' che renderebbe legittima tale difesa. Dal punto di vista puramente legale il primo problema è quello della giurisdizione. Chi ha competenza per valutare questo tipo di azioni 'belliche'? Procure e tribunali del Paese che agisce? Del Paese della vittima? Del Paese in cui avviene l’omicidio?
I precedenti penali presso corti nazionali o internazionali sono pochi e contraddittori. Cinicamente si potrebbe dire: chi si duole per la morte di un pericoloso attentatore? In generale, non dovremmo abdicare mai ai nostri principi di umanità e di legalità. Ma il caso del generale, comandante delle guardie iraniane della rivoluzione, è ancora più controverso. Un’analisi stringente l’ha svolta il famoso filosofo morale Peter Singer, docente a Princeton, autore, tra l’altro, di 'Liberazione animale'. Si può difendere eticamente l’azione americana?, si è chiesto lo studioso. Il punto di partenza è che togliere la vita è sbagliato. Singer cita Trump: «Difenderò sempre il primo diritto nella nostra Dichiarazione di Indipendenza, il diritto alla vita». Il presidente parlava agli antiabortisti, ma Singer – favorevole all’aborto – argomenta che il diritto alla vita che si applica ai feti deve valere anche per gli adulti.
Se l’America è un governo delle leggi e non degli uomini, dovrebbe esserci un processo per decidere della colpevolezza Dal 2002 vi è la Corte penale internazionale, cui però gli Stati Uniti non hanno aderito
Si potrebbe pensare che vi sia un’eccezione per il «malvagio», che il diritto alla vita protegga solo gli innocenti. Ma chi giudicherà dell’'innocenza'? Se l’America è un «governo delle leggi e non degli uomini», dovrebbe esserci un processo per decidere della colpevolezza. Per esempio, dal 2002 vi è la Corte penale internazionale, cui però né gli Stati Uniti né l’Iran hanno aderito. Se invece il governo può decidere semplicemente chi uccidere in questo modo, senza alcun giusto processo né l’approvazione di altri poteri dello Stato, allora diventa difficile trovare un’obiezione basata su principi a simili omicidi condotti da qualsiasi Stato, persino dall’Iran. L’unica differenza sarebbe il grado di 'malvagità' della vittima, per esempio Soleimani rispetto all’ambasciatore saudita a Washington che si dice il generale volesse colpire con un attentato. Ma così si entra nel puro arbitrio umano, che scalza lo Stato di diritto.
E se vi fosse stato un attacco imminente? In realtà, il Pentagono ha parlato di «deterrenza rispetto a futuri piani di attacco iraniani». Quindi, non vi sarebbe stato quel pericolo 'imminente' richiesto per giustificare un’azione di auto-difesa sotto la legge internazionale. Inoltre, se anche Teheran avesse avuto pronto a ore o a giorni un attentato, il 'bottone' avrebbe potuto essere premuto da qualche altro ufficiale, senza il bisogno di Soleimani. Paradossalmente, dal punto di vista strategico, è più sensato eliminare un pianificatore eccezionale qual era il generale iraniano molto prima che abbia modo di ideare un piano, quando tuttavia non c’è la giustificazione legale, perché il pericolo è potenziale e non imminente. analogia con l’uccisione dell’ammiraglio Isoroku Yamamoto nel 1943, evocata da alcuni funzionari americani, fa dire a Singer che ciò presuppone che gli UL’ sa stiano combattendo una guerra giusta contro l’Iran, com’era nel Secondo conflitto mondiale contro il Giappone. Secondo la dottrina della guerra giusta, si possono uccidere i nemici ogni volta che vi sia l’opportunità, posto che la rilevanza del bersaglio superi i danni collaterali. Ma gli Stati Uniti non hanno dichiarato guerra all’Iran, un atto che la Costituzione attribuisce solo al Congresso. Se l’uccisione di Soleimani non è un atto di guerra, conclude Singer, è un omicidio extragiudiziale non necessario per prevenire un attacco imminente, e quindi risulta illegale e immorale. Con conseguenze negative non solo per l’escalation militare in Medio Oriente, ma anche nel contribuire al declino del rispetto delle leggi internazionali (illegali e immorali sono beninteso anche rappresaglie indiscriminate da parte iraniana).
Come avremmo reagito se un drone armato avesse individuato Totò Riina dopo l’assassinio di Falcone e prima di quello di Borsellino, e colpito la sua auto con un missile dal cielo?
Ovviamente, si può replicare che Suleimani aveva già manifestato la sua pericolosità concreta con l’organizzazione del bellicoso assedio di massa all’ambasciata americana di Baghdad e che, in generale, non c’era altro modo di neutralizzare un alto esponente di un regime ostile che mai avrebbe concesso l’estradizione malgrado le molte prove della sua responsabilità in crimini accertati. Se per i cittadini di u- no Stato di diritto le garanzie sembrano essere chiaramente codificate, in situazioni di conflitti a bassa intensità e asimmetrici che coinvolgono più Stati le regole si fanno più nebulose e stabilire una linea netta diventa difficile. Ciò non significa che la ragion di Stato consenta di giustificare tutti i tipi di 'omicidio mirato', ma forse non è del tutto implausibile che alcuni di essi possano rientrare in forme di difesa che non hanno una cornice legale eppure risultino moralmente giustificabili a precise condizioni.
Inoltre, sembra che sia lo stesso progresso dei mezzi tecnologici a creare situazioni nuove in cui le tradizionali categorie legali possono non risultare pienamente adeguate e perfino i giudizi morali consueti debbano essere perlomeno di nuovo attentamente considerati. Pensiamo a un esempio più vicino a noi: se un drone armato italiano avesse individuato il superboss stragista Totò Riina, dopo l’assassinio di Falcone e prima di quello di Borsellino (che allora non era previsto), in una zona in cui era impossibile catturarlo e alta la probabilità di perderne poi le tracce, si sarebbe potuta colpire la sua auto con un missile dal cielo? E se la polizia l’avesse fatto, che conseguenze vi sarebbero state, dal punto di vista giudiziario e politico? E se l’avesse fatto in Sicilia un drone belga dell’Interpol dopo un mandato di cattura internazionale? Come avremmo reagito? Come reagiremmo se i velivoli utilizzati per future azioni simili a quella messa in opera contro Soleimani partissero da basi italiane o, addirittura, venisse chiesto alle forze armate italiane di partecipare attivamente a 'omicidi mirati'?
Ricordiamo che per il 'rapimento' a Milano nel 2003 dell’imam Abu Omar – sospettato di terrorismo, portato in Egitto da agenti Cia con complicità dei vertici del Sismi e poi torturato – la magistratura italiana ha condannato i funzionari americani e avrebbe anche mandato in prigione quelli italiani se non fosse intervenuto il Segreto di Stato a tutelarli. Un caso meno grave degli 'omicidi mirati' ma severamente sanzionato (anche se alcuni successivi provvedimenti di grazia hanno, per altro verso, indicato che i reati non fossero considerati così pesanti o che l’amicizia con gli Stati Uniti fosse prevalente).