Violenze a Managua alle esequie di Cardenal
giovedì 5 marzo 2020

La scena rimarrà impressa a fuoco nella memoria collettiva del Nicaragua. Amici e parenti schierati a protezione con i propri corpi, mentre il feretro veniva portato in tutta fretta attraverso la porta laterale della Cattedrale di Managua. La bara sistemata di corsa sull’auto, partita poi a tutta velocità, tra le grida scomposte di 'traditore'. Poi l’assalto finale a calci e pugni a chi era rimasto. Hans Lawewnce, giornalista di 'Nicaragua Investiga', è finito in ospedale per le botte. Anche dopo la morte, Ernesto Cardenal ha condiviso la sorte del suo popolo, ferito e ribelle.

E il suo funerale s’è trasformato nello specchio del dramma e delle contraddizioni in cui è immerso il Nicaragua. Paese dei paradossi e Paese paradosso. Il governo di Daniel Ortega – ex comandante guerrigliero –, rivendica i simboli e la retorica della Rivoluzione sandinista del 1979, si proclama fervente cristiano e dichiara tre giorni di lutto nazionale per la morte di uno dei poeti più conosciuti dell’America Latina. Al contempo, però, quello stesso governo impiega le turbas – i gruppi paramilitari di suoi fedelissimi – per attaccare la vecchia guardia del sandinismo, passata all’opposizione, assaltare e imbrattare le chiese, accusate di 'golpismo' e ingiuriare, perfino nel giorno dell’addio pubblico, Cardenal, «il traditore».

La colpa del sacerdote, autore del capolavoro 'Canto cosmico', è stata quella di aver colto, fin dalla fine degli anni Ottanta, i segnali inquietanti di involuzione autoritaria di Ortega, di cui era stato ministro della Cultura. Erano state le sue mani di scultore, oltre che di poeta, a intagliare l’enorme sagoma di Augusto Sandino, sulla collina di Tiscapa, luogo dove l’eroe nazionale fu tradito e assassinato, grazie a quell’Anastasio Somoza che, poi, sarebbe diventato dittatore. La scelta di restare nel governo gli era costata la sospensione a divinis nel 1985, sanzione rimossa dalla Santa Sede l’anno scorso.

Ma Cardenal non era stato solo un ministro: il suo volto magro e il basco nero erano una delle icone della lotta contro il regime dei Somoza negli anni Settanta e del movimento sandinista, inteso come sforzo per costruire un Nicaragua più giusto e inclusivo, più libero e plurale. Per questo, Ernesto Cardenal ha denunciato, con coraggio profetico, le tentazioni autocratiche di Ortega. E ha continuato a farlo, con la stessa determinazione, quando l’ex guerrigliero è tornato al potere, nel 2006, per restarvi. A ogni costo. Anche a costo di dare vita a una feroce persecuzione giudiziaria nei confronti del sacerdote ribelle. Anche a costo di far oscurare la sagoma di Sandino con un mastodontico 'Albero della vita', firmato dalla vice (e moglie), Rosario Murillo.

Anche a costo di reprimere nel sangue – con un bilancio, per difetto, di 325 morti e centinaia di arrestati – la rivolta pacifica dei cittadini, nella primavera del 2018. «Cardenal traditore». Così hanno gridato uomini e donne delle turbas, con al collo il fazzoletto rosso e nero – simbolo del sandinismo sequestrato dall’orteguismo – all’arrivo della bara. Invano il nunzio, Waldemar Stanislaw Sommertag ha supplicato di non interrompere la celebrazione.

«È una Messa», ha detto, per poi aggiungere: «Per favore, se volete mi metto in ginocchio». Non è riuscito, però, a calmare i paramilitari che hanno impedito al vescovo, Rolando Álvarez, di pronunciare l’omelia. Le turbas (il nome è inequivocabile) erano entrate nella Cattedrale con buon anticipo, si erano sistemate nelle panche in fondo, mostrando cartelli con scritto: «Vogliamo la pace».

Familiari, amici e ammiratori poeta defunto avevano subito capito quel messaggio rassicurante era, in realtà, un annuncio di tempesta. Del resto, il giorno precedente, lunedì, la camera ardente era stata presidiata da agenti antisommossa, pronti ad annotare i nomi dei visitatori. I tafferugli dentro e fuori la Cattedrale erano, dunque, previsti dalla regia di regime. Il che non ha impedito al popolo di nicaraguense di accompagnare il suo 'sacerdotepoeta'. I cui versi sono ormai iscritti nel Dna delle generazioni di allora e di adesso.

«E ora repentinamente in tutto il Paese sono insorti i giovani in protesta prendendosi le strade. Qualcosa che non si prevedeva, perché la gioventù sembrava addormentata o che su di lei fosse caduto una lastra sepolcrale», recitavano ieri vari ragazzi: brano scritto durante il somozismo e diventato sottofondo delle proteste del 2018. Insieme all’indimenticabile: «Alzatevi tutti, anche i morti».

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