Elisabetta Ponzone
Ci sono notizie che non diventano mai compiutamente tali, cara amica. Perché le loro fonti sono deboli o intermittenti o incerte. Oppure semplicemente perché sono notizie "scomode". E ci sono sofferenze umane che non esplodono mai del tutto. Perché proviamo a soffocarle, persino dentro noi stessi. Oppure perché chiedono e quasi impongono di essere vissute con delicatezza. O ancora perché vengono negate da chi non sa e non vuole riconoscerne l’esistenza, la potenza, la scorrettezza. La fragile e sconvolgente notizia che lei affronta con dolore – e che su Avvenire abbiamo pubblicato anche in prima pagina, dopo tutte le verifiche possibili e con non placata angoscia – è quella dell’uccisione di un bimbo afghano di sette anni accusato dai taleban, a quanto è tormentosamente trapelato, di aver giocato con malizia – addirittura da «spia» – nella guerra dei grandi. È una notizia che fa balenare la tragedia senza luce di un piccolo Kim dei giorni nostri, protagonista di una storia che non conosceremo mai sino in fondo, portatore di un nome che non ci è dato di sapere. Un’incertezza tragica, accompagnata dall’immane pesantezza di un esile corpo senza vita. Ha ragione lei, gentile signora: comunque sia, un bambino ci è stato tolto. A sette anni, appena oltre la soglia che – a me piccino, in quest’altra parte del mondo diversissima e umanamente uguale – veniva indicata con un sorriso come l’«età della ragione». E attorno a questa morte di cui ragione non riusciamo a darci c’è effettivamente stato – incrinato da pochissime voci – un «quasi silenzio colmo di niente». Lo stesso «quasi silenzio» che ancora e sempre accompagna – in ogni giorno del nostro mondo – lo sterminio per fame e per sete, per pigrizia e per abbandono, per profitto, per egoismo, per debolezza e per paura di una immensa folla di piccoli e di deboli senza nome. Vivi e messi a morte, già nel grembo materno o in giorni e luoghi depredati di serenità e di futuro. Eppure ogni morte pesa, ogni morte bambina è uno scandalo gigantesco. Grazie, cara Elisabetta, per non aver trattenuto il suo «gemito» e per averlo fatto arrivare sin qui. Non sappiamo il nome del bimbo ucciso in Afghanistan, ma abbiamo conosciuto il pianto della madre.
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