Dovevo partire per l’Iraq per rivedere mia figlia, operatrice umanitaria nella regione del Kurdistan, ma il blocco imposto dal governo iracheno agli arrivi dall'Italia mi ha tristemente trattenuto a casa. Al di là dei miei sentimenti, la vicenda in cui sono stato coinvolto mi pare emblematica delle conseguenze dell’allarme coronavirus.
Anche in questi giorni non manca chi ripropone il nesso virus-migranti, agitando una delle paure più antiche e radicate nei confronti degli stranieri: che importino pandemie incontenibili. Di qui le reiterate richieste di blocchi delle navi che trasportano persone salvate in mare, di quarantena per gli immigrati irregolari che entrano via terra dai confini nord-orientali, e altre parole in libertà.
Dopo i cinesi, sono ora i nuovi arrivati a finire nel mirino: gli stranieri poveri e politicamente deboli, mentre nei confronti dei turisti provenienti da tutto il mondo cresce il rammarico per la pioggia di disdette. Stando a questi improvvisati ma rumorosi esperti di igiene pubblica, dovremmo attuare misure cautelative schizofreniche, severissime soltanto verso chi non arreca benefici all’industria turistica o agli scambi economici.
Come se chi viaggia per diporto o per affari fosse meno portatore di contagio di chi fugge da guerre e regimi oppressivi, malgrado i casi già accertati di turisti ricoverati perché colpiti dal virus.
Ma gli allarmi scomposti suscitano reazioni altrettanto scomposte: ora non soltanto l’Italia e i prodotti italiani vengono catalogati assurdamente come 'pericolosi', ma sono gli italiani a vedersi respinti in porti e aeroporti, o impediti di entrare in Paesi normalmente accoglienti nei loro confronti, giacché 186 governi nazionali nel mondo non richiedono loro il visto. Il caso dell’Iraq è eloquente: si registrano focolai di colera e di epatite nei campi profughi, per tacere della scabbia, ma anche laggiù è il coronavirus a scatenare la paura, provocando misure drastiche di chiusura dei confini. Al di là dei suoi contorni grotteschi, questa crescente ondata di paura transnazionale sollecita alcune riflessioni di più ampia portata. La prima riguarda il principio di reciprocità: non si può pensare di chiudere i confini unilateralmente, senza immaginare che ad altri possa venire in mente di attuare la stessa misura nei nostri confronti.
Non solo: molti italiani all’estero denunciano il sempre più visibile isolamento che subiscono negli spazi pubblici, dove la gente si allontana da loro quando li sente parlare. Un fenomeno che ben conoscono cinesi e altri immigrati nel nostro Paese. La seconda riflessione riguarda uno dei più consolidati luoghi comuni di questi tempi di sovranismo: l’idea che l’apertura verso l’esterno sia pericolosa e foriera di costi per la massa dei cittadini, mentre la chiusura sarebbe allo stesso tempo rassicurante e vantaggiosa.
Non è così: non lo è per il problema della reciprocità già richiamato, e per i gravi costi interni che derivano dalla chiusura dei confini e dei luoghi dello scambio sociale. Sono un sociologo, non un virologo e non so dire se le misure assunte dal governo siano adeguate, eccessive o insufficienti. Vedo però che la logica precauzionale della chiusura, di cui il nostro Paese è stato antesignano, si sta ritorcendo contro di noi: sta provocando gravi problemi a chi vuole partire, a chi vuole arrivare, a chi lavora nel sistema ricettivo, a chi desidera vivere le nostre città.