Come ogni anno, in questo declinare dell’autunno torniamo nei cimiteri. E, essendo la morte fuori da quelle mura una questione censurata, una parola che non si vuol pronunciare o semplicemente un evento intollerabile e funesto, ci guardiamo fra noi, nei viali, mentre andiamo con i nostri fasci di crisantemi. Quasi cercando di rintracciare nella faccia di un altro quella speranza di vita eterna che la Chiesa insegna, ma in cui in tanti fatichiamo a credere davvero: immersi come siamo in un mondo che declina tutt’altre verità. Agli albori del cristianesimo, Paolo esortava i tessalonicesi a «non essere tristi come gli altri che non hanno speranza». Già nel momento del cristianesimo sorgivo gli uomini stentavano, di fronte alla asprezza della morte, ad affermare come vera la vita eterna promessa da Cristo. Così come molti di noi, e forse i più giovani, e quelli che non hanno respirato la fede in casa da bambini, entrando nel più fiorito dei cimiteri avvertono la durezza delle apparenze della morte: lapidi fredde, e nomi incisi che vanno con gli anni sbiadendo, là dove giace ciò che resta di chi abbiamo molto amato. Una prova che potrebbe interrogarci, nel senso della domanda che Benedetto XVI poneva nella enciclica
Spe salvi: quando si chiedeva se la fede cristiana è ancora per gli uomini di oggi una speranza che davvero trasforma e sorregge la vita. È questa la sfida, camminando fra le tombe di chi ci ha preceduto.Occorre una certezza radicata, per contrastare le apparenze della morte. E occorre che ogni anno, a ogni generazione la Chiesa proclami la sua pretesa audace. Anche se perfino circa questa antica espressione Benedetto XVI si era sentito in dovere di spiegare che la vita eterna è «l’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo, il prima e il dopo non esistono più», e non un susseguirsi senza fine di giorni dei nostri: prospettiva, questa, che a qualcuno potrebbe anche fare paura. Un tempo del tutto altro ci è annunciato, in cui il prima e il dopo non esistono più. Mentre nei viali dei cimiteri il tempo può gravare come una mole opprimente. Ciò che è stato e non è più può pesare drammaticamente – come se fossero, quegli occhi, quelle facce care, perdute per sempre. E torna alla memoria ancora un’espressione di Benedetto XVI, quando disse che nella fede risuona «l’eterno presente di Dio». Un tempo salvato, in cui non esiste più la caducità e la morte. Un tempo per noi inimmaginabile. Ma tanto siamo chiamati a credere nella fede: a osare un salto in Dio, ammettendo che egli possa trascendere ogni legge da noi conosciuta – ognuna di quelle leggi su cui il mondo fonda la verità degli uomini, in quanto empiricamente dimostrabile. E mentre i passi fanno scricchiolare la ghiaia dei viali, ti accorgi come questo giorno che torna ogni anno, nel mese in cui la natura volge al declino, sia un giorno di conversione: tempo per guardare di nuovo a Cristo, liberi per un momento dalla contingenza degli eventi. Un giorno di speranza, come ha detto papa Francesco ieri nel cimitero del Verano gremito. Speranza?, avrebbe potuto domandare uno che fosse passato di lì per caso. Speranza, di fronte a questo esercito di morti, di sommersi dagli anni, di polvere annichilita? Ma tutto sta nella risposta che possiamo dare alla domanda fatta ieri alla folla del Verano da Francesco, mentre il sole calava: «Dove è ancorato il nostro cuore?» E ha ricordato come per i primi cristiani l’ancora fosse il simbolo della speranza; giacché l’ancora si avvinghia alla roccia, e la fune consente a chi vi si aggrappi di sottrarre la propria barca all’ondeggiare tumultuoso del mare. Se il cuore è ancorato in Dio, si può sempre tornare. Così che al Verano, città dei morti, mentre il buio scendeva, la Chiesa ancora una volta ha ricordato ai lontani, ai distratti, ai dimentichi la sua speranza immensa. «Lievito», l’ha definita il Papa, «che fa allargare l’anima». Respiro diverso, che già colma e scandisce di un altro ritmo i nostri giorni di uomini.