Lezione e generosità di un padre: seme mai perso, luce compiuta
Un medico scrive dopo l'improvvisa morte di suo papà. E racconta una storia di onesta dedizione al lavoro e agli altri, segnata negli ultimi mesi dalle sofferenze per il sisma e il dopo-sisma
Caro direttore,
mio padre, Antonio, ci ha lasciati improvvisamente il 5 ottobre. Alla fine il cuore del “Leone” ha ceduto. Mentre stava cenando con mia madre Carla, il cuore ha smesso di battere e di scandire il tempo della sua vita terrena. Lo stesso cuore che per 71 anni gli aveva fatto combattere innumerevoli battaglie contro il cinico egoismo di questi tempi, a volte così barbari e mediocri. È strano, perché da medico mi rendo conto che a soffrire sono sempre le persone che ci tengono di più, che se la prendono più “a cuore”, che praticano l’altruismo e che provano un senso di vero malessere quando vedono la crudeltà generata dall’indifferenza, dal malaffare, dalle ingiustizie dirette soprattutto nei confronti dei più deboli e indifesi. E ora che tra i più indifesi c’erano anche lui e mia madre, il suo cuore non ha retto. Da quando hanno subito i colpi devastanti dell’ultimo terremoto nel Centro Italia, i miei genitori si sono sentiti abbandonati proprio da quelle Istituzioni in cui tanto avevano creduto. Per carità, ricevevano (e ricevono tuttora) il contributo di autonoma sistemazione, ma erano considerati e si sentivano degli “accampati”, come li aveva definiti il sindaco di Roccafluvione, e nessuno ha mai sistemato la strada che congiungeva la strada provinciale alla vecchia casa rurale che, anche grazie a quel contributo, avevano ritirato su con pazienza, dedizione, amore, in una sola parola: con fede. È così che oggi vengono definite le persone coraggiose, le persone d fede: accampate. Nella mia mente, scolpite nella mia memoria di bambino, c’è mio padre che lavorava all’Inps e “riceveva” anche di domenica vedove e vedovi che gli chiedevano di fare qualcosa per poter avere la sospirata pensione di reversibilità che la burocrazia impediva loro di ottenere con infiniti cavilli e impacci e spesso solo per indifferenza. E queste lontane immagini sono così simili a quelle attuali... penso a nonna Giuseppina, sfrattata a 95 anni dalla sua casetta di legno. Uomini come mio padre gliel’avrebbero costruita quella casetta, altro che sfratto!
E così, direttore, in questo momento così duro, mentre davanti ai miei occhi gonfi di dolore le lettere sullo schermo digitale ondeggiano come la fiamma tremula di una candela, rivedo mio padre chino sulla macchina da scrivere mentre prepara le richieste per le pensioni di reversibilità, o per porre rimedio a qualche ingiustizia. Il suo esempio mi resta, per sempre. E lo ringrazio perché sino all’ultimo mi ha spiegato con la sua vita il significato della “fede”: vuol dire andare avanti, avere fiducia anche quando sembra non esserci spazio e motivo. Perché c’è un momento in cui ogni cristiano domanda: “Perché mi hai abbandonato?”, ma si va avanti lo stesso, finché regge il cuore. Questa è fede. E mio padre era (ed è) un uomo di fede.
Giuseppe Stipa, neurofisiologo Ospedale di Terni
© RIPRODUZIONE RISERVATA






