martedì 12 novembre 2013
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Caro direttore, trentacinque anni fa, a questa data, mia cognata Paola era una giovane mamma in attesa: suo figlio Davide aveva già 8 mesi, ma né lei, né mio fratello Alessandro, né nessun altro lo avevano visto in faccia. E sì, perché Davide non era ancora nato. Ciononostante nessuno di noi, e Paola più di tutti, aveva mai dubitato che ci fosse. Quell’anno a maggio aveva giustamente "preteso" di festeggiare la festa della mamma, perché Davide aveva "già" un mese, quindi lei "già" era sua mamma. Con mio fratello, e coloro che avevano scelto come padrini di Davide, aveva partecipato anche a un itinerario di preparazione al Battesimo, aumentando gioia a gioia: essere collaboratori di Dio per dare la vita e la fede. C’è qualcosa di più grande?
 
Il 23 dicembre 1978 Paola ha partorito, ma Davide era morto, la placenta si era staccata prima del parto. Davide era un bellissimo bambino con tanti capelli neri e ricci, aveva le mani, le dita, le unghie, gli occhi, le ciglia… tutto. Perché era morto? Perché era accaduto questo nella nostra famiglia? Perché all’antivigilia di Natale? Che festa, che luce, che pace avremo conosciuto? Con tutte quelle domande pesanti nel cuore, mio fratello Alessandro si è caricato nella sua Fiat 500 (aveva comperato i coprisedili nuovi per portare Davide a casa dall’ospedale) la piccola bara bianca con Davide dentro. E lo abbiamo portato in chiesa dove il fratello di Paola ha presieduto l’Eucaristia per dire grazie a Dio papà del grande dono che ci aveva fatto donandoci Davide. Poi lo abbiamo portato in cimitero. Dentro la sua piccola bara c’era anche un libretto di canti, perché Davide è il cantore di Dio. Paola non c’era perché ancora ricoverata in ospedale.
Per Davide è stata costruita una semplice tomba, in travertino, con scritto il suo nome e una data: quella della sua nascita tra noi e in cielo. I suoi cinque fratelli, nati dopo di lui, grazie anche a quella tomba, sanno bene che Davide è il loro primo fratello. Non è mai stato un «grumo di materia», ma Davide. Mentre Paola non è mai stata una donna «che non è riuscita a portare a termine il suo dovere di animale al servizio della specie», ma sempre la mamma di Davide e poi di Elena, Marco, Elisabetta, Martina e Anna e quel titolo – "mamma" – nessuna scrittrice potrà mai toglierlo, come nessuna scrittrice potrà mai togliere o infangare la dignità di nessuno dei suoi figli, vivi o morti che siano.
La morte di mio nipote Davide per me è stata un grande "problema", tanto da farmi dubitare di Dio, della sua promessa e del senso del mio mettermi al suo servizio come prete (già da 9 anni ero in seminario in ricerca vocazionale). Ho pianto, mi sono arrabbiato, ho protestato, ho cercato, ho "sfidato" Dio finché il 23 dicembre 1984, sei anni dopo la morte di Davide, da poco ordinato diacono, ho amministrato per la prima volta il Battesimo a dei bambini. Mentre versavo l’acqua sulla testa di quei bambini donando loro la vita di fede, non ho potuto non piangere di gioia e ringraziare Davide, il cantore di Dio, che con quella sua morte aveva fatto rinascere la mia fede e la capacità di donarla.
Conosco il dolore e il dramma della morte e il laborioso itinerario per accoglierla come "sorella", ma non capisco la necessità di insultare la vita di altri come in questi giorni ha fatto, negando loro la dignità di persone, la signora Lidia Ravera. Che non è stata la sola. Nessun «cattolico credente e praticante» può fare questo senza insultare Gesù che si è identificato con ciascuno di noi.
don Carlo Velludo, Treviso
 
Stavolta, caro don Carlo, per me è davvero difficile aggiungere anche solo una parola a ciò che lei ha vissuto e scritto. Ci proverò lo stesso, spinto dai fatti, ma non senza averle prima detto grazie di cuore, per averci messo a parte di una storia familiare e personale che si fa corale e assolutamente antiretorica testimonianza d’amore. Io penso che nessun uomo e nessuna donna, credenti o meno, possano permettersi di decretare la vita di qualcun altro in qualunque fase e condizione «inesistente» o «inutile» o «indegna» o «invivibile» o, magari addirittura tutte queste cose insieme. E a proposito di aborto so che nessuna donna e madre può ignorarne la terribilità. Ieri, Lidia Ravera, molto a suo modo, cioè chinandosi umanamente e ribellandosi politicamente, lo ha confermato, chiedendo scusa alle donne-madri – gli uomini-padri, anche quando ci sono (e non per modo di dire), non contano nulla secondo certi schemi – che si erano indignate per le raccapriccianti frasi su figli non nati («grumi di materia») e gestanti (donne che non riescono «a portare a termine il dovere di animale al servizio della specie»). Devo dire che le nuove parole di Ravera, scritte ieri, mi hanno, insieme, commosso e agghiacciato, e non mi era mai capitato con questa intensità. Mi ha commosso il racconto di «un aborto spontaneo all’inizio del quarto mese». Scrive Ravera: «Uno dei grandi dolori della mia vita. Ricordo il senso di lutto, me lo ricordo benissimo, un sentimento molto molto privato, che non riuscivo a comunicare. Ricordo il senso di colpa, come se avessi sbagliato qualcosa. Di inadeguatezza, come se non fossi stata degna del ruolo». E subito aggiunge: «Ricordo il risveglio dall’anestesia, quando chiesi all’infermiera, subito, appena ripresi i sensi: era un maschio o una femmina? Ricordo la risposta: non era ancora niente. E la ringrazio, dentro di me, perfino adesso, perché quella retrocessione nell’indistinto mi ha aiutata». La frase di Ravera che ferisce la verità (e arriva dalla bocca di una terza persona) è quel «non era ancora niente». La parola chiave è «retrocessione». Allora, «retrocessione nell’indistinto» del figlio perduto, oggi retrocessione a pura «faccenda politica» della civile e umanissima richiesta di dare sepoltura ai propri bambini non nati. Io posso solo inchinarmi al dolore di una donna e rispettare ciò che l’ha lenito. Ma so che far retrocedere la realtà è semplicemente impossibile. Anche se le parole riescono a produrre suggestioni incredibili, nessun figlio – nato o non nato – in nessun momento è mai «niente».
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