Luciana Montecolli, Roma
Non credo proprio, cara signora Montecolli. Non verremmo lapidati, anche se correremmo il rischio di essere definiti «vitalisti», «intolleranti» e, naturalmente, sprezzantemente, «crudeli». Del resto c’è chi – come Corrado Augias, che com’è noto tutto sa e tutto comprende... – già ci ha smascherato con feroce indignazione... Perdoni il sarcasmo. Ma davvero, credo che la maggior parte della gente, la stragrande maggioranza, non lapiderebbe chi accorre al capezzale di un uomo e di una donna, e non per "terminarli". Perché è questo che la gente vera fa, è questo che la gente vera vive nella sofferenza e al limitare della morte: lotta per non cedere al male e al dolore, sta accanto a chi patisce, e sempre rispetta, cura, prega. E quando sembra che nulla ci sia più da fare e da dare, fa e dà di più: accetta, lenisce, accompagna, piange come solo le donne e gli uomini sanno fare e, se ha fede, spera ancora più fortemente... Insomma: non abbandona, ed è capace di slanci, di tenerezza, di intelligente dedizione, di infinito sostegno a chi è fragile e, a volte, come assente. Sono un illuso a pensarlo? Sono un sognatore? Sono un cristiano inguaribilmente ottimista? No, sono solo uno che vede le insidie, ma soprattutto vede ciò che accade, faticosamente e splendidamente, nella realtà. Sono uno tra i tanti che crede che, prima o poi, tutti gli uomini e tutte le donne di questo nostro tempo riusciranno a capire – torneranno ad aver chiaro nonostante le più fuorvianti e martellanti propagande a senso unico – che cosa c’è davvero dentro la finta dolcezza della parola e della pratica dell’«eutanasia». Dentro la falsa pietà della morte a comando (che è l’altra faccia della vita che si riproduce in laboratorio). Capiranno, e in tanti forse già stanno cominciando a intuirlo, che in ballo – sotto le sgargianti bandiere dell’«autodeterminazione» – c’è la pretesa di rendere «bene disponibile» la vita umana. Di catalogarla come un "qualcosa" di cui disporre a piacimento, da gettar via innaturalmente o altrettanto innaturalmente da suscitare e da perpetuare, da sezionare e da brevettare, da vendere e da comprare, da valutare (come un tempo si valutavano gli schiavi) e da dichiarare più o meno degna secondo le consapevolezze, i criteri e le utilità del momento... La vita umana come mero prodotto, come insieme di pezzi (anche di ricambio), come merce liberamente piazzata sulle suggestive bancarelle del libero – liberissimo, ci mancherebbe – mercato del mondo. Noi uomini e donne illusoriamente "autonomi" e in realtà soli – non più partecipi di una rete solidale che s’inizia alla nascita –, "liberi" tra un desiderio e una disperazione fatti assoluti, senza più relazione con la vita, senza più misura e grandezza nello specchio delle capacità e dei sentimenti di chi ci è accanto e incrocia il nostro cammino.Eh no, cara e indignata amica lettrice, io non riesco proprio a credere che possa finire così, che tutta la nostra solidarietà umana sia destinata a esaurirsi al capezzale di un leone paralizzato...
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