Il vigoroso caveat sul rapporto social-minori espresso recentemente dalla massima Autorità sanitaria americana che si occupa di salute pubblica dovrebbe essere considerato una pietra angolare di una nuova attenzione collettiva. Ma, passato il clamore delle prime reazioni, è probabile che anch’esso venga metabolizzato. E però, preziosi sono tutti i contributi che mirano a richiamare la responsabilità e la consapevolezza collettive. Recentemente, come riportato da “Avvenire” il 30 maggio scorso, il Dicastero della Comunicazione del Vaticano ha presentato un documento che è un’indicazione per abitare i social come cristiani, rifacendosi alle Giornate mondiali delle Comunicazioni sociali iniziate nel ’67.
E se è vero che per buona parte della popolazione mondiale la questione a tema è l’accesso stesso al web, è altresì vero che i social hanno permeato ormai l’intero pianeta, con condizionamenti di cui si è poco consapevoli e con la sollecitazione continua di contrapposizioni, divisioni, odio sociale. La questione si fa più seria quando si parla di nuove generazioni, più attrezzate tecnicamente ma molto meno attrezzate culturalmente a fronte dell’abdicazione educativa più o meno sconsolata praticata da tanti. A dire il vero l’impatto delle nuove tecnologie, mediatiche e non solo, sugli adolescenti sta diventando un tema sempre più centrale; sembra però che le preoccupazioni diffuse non riescano a sedimentarsi in una presa di coscienza collettiva che sappia tradursi in programma e progetto sociale.
In rete si trovano i presupposti di una tecnica di dominio, tra masse non pensanti e schiere di soggetti aggressivi. Un mondo in cui tracimano consigli per farsi male o partecipare a riti iniziatici pericolosi
La sensazione è che, al di là di pur pregevoli esperienze locali non si riesca a fare massa critica per richiedere dal mondo della politica e delle istituzioni, soprattutto quelle formative, un’efficace strategia d’azione. Peraltro, l’enfasi viene posta per lo più sui mezzi (ad esempio, i social) piuttosto che sui contenuti, cioè sul tipo di cultura che tali mezzi veicolano. È lo stesso errore che diversi decenni fa si realizzò con il passaggio dalla televisione generalista alle diverse piattaforme a pagamento e no. Inebriati dalla novità e dall’ampliarsi improvviso e imponente dell’offerta di contenuti audiovisivi si disse che ogni pericolo di omologazione o di impatto di contenuti nocivi sui minori veniva a cadere perché finalmente c’era la possibilità quasi illimitata di cambiare, di scegliere qualcos’altro. Senza accorgersi, (scarsa attenzione o scelta intenzionale) in realtà, che dal punto di vista della crescita equilibrata dei ragazzi, i contenuti che si rendevano disponibili sulle diverse tv (a pagamento e non) erano sostanzialmente gli stessi, farciti di parole e comportamenti aggressivi oppure di edulcorate rappresentazioni della realtà (indirizzate per lo più alle bambine).
E malgrado l’impegno di centinaia di istituti di ricerca in tutto il mondo e di una nutrita schiera di ricercatori che formulavano allerta circostanziate sulla base di migliaia di studi convergenti, le nuove tecnologie mediatiche seguirono indisturbate il loro corso, contribuendo a rafforzare quanto di violento e protervo ci fosse nelle pieghe della società, da una parte, e, dall’altra, coltivando una visione evasiva, inconsistente, ottusa. I presupposti di una tecnica di dominio, masse non pensanti e schiere di soggetti aggressivi… Si direbbe “un’insostenibile leggerezza dell’essere”. Un mondo in cui tracimano consigli per farsi male o partecipare a riti iniziatici pericolosi da una parte oppure si rappresenta una realtà che somiglia al mondo di Barbie, tutto luccichii, cromature, smalti.
Non che il mezzo non sia di per sé un messaggio, per dirla con il vecchio McLuhan: stare tutto il giorno con lo sguardo perso sul proprio cellulare sarebbe sufficiente a decretarne la pericolosità anche se i contenuti fossero esemplari. Recentemente una delle influencer più seguite ha postato una sua foto abbigliata con un niente; confortante che una ragazzina abbia postato una presa di posizione decisa con la domanda rivolta all’influencer se quella foto fosse un invito alle ragazzine a fare altrettanto. Ma quante altre si saranno confrontate nel chiuso della loro cameretta con lei, assumendo la stessa posa e avvertendo la propria inadeguatezza come se il problema fosse essere “non abbastanza esibibili”?
I social, di cui si favoleggiava decenni fa fossero un mezzo per una maggiore partecipazione sociale sono diventati invece lo specchio stregato di un’estetica omologata che presuppone una gran cura (e dunque una sostanziosa spesa) e si impone su ogni altro interesse. Una superficialità, che investe anche quella ridotta quota di giovani che si interessa di politica: per fare un esempio, quando alcune ragazze a favore(sic!) della gravidanza per altri (Gpa) la sostengono recitando vecchi slogan degli anni Settanta (“l’utero è mio”) si rendono conto che la Gpa è proprio l’alienazione dell’utero femminile che diventa di chi ha i soldi per affittarlo? E che stanno gridando qualcosa che è esattamente il contrario di quello che vogliono o che credono di volere? Quanta superficialità affligge questo cambiamento d’epoca… Lavoriamo con speranza insieme perché i media, come ha detto recentemente Papa Francesco, ci aiutino a comprendere l’unità della famiglia umana.