Caro Avvenire,
le omelie dei funerali sono un’occasione per illuminare i 'lontani', che loro malgrado 'debbono' essere presenti, e dar loro la possibilità di aprire gli occhi sullo scopo dell’esistenza (per conoscere Dio, amarlo e servirlo in questa vita, per poi goderlo nell’altra in Paradiso) che non è quello di far soldi, divertirsi e simili. Quando mai capita poi di incontrare un predicatore così coraggioso da affrontare il tema ugualmente essenziale dei Novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso? Grave responsabilità quella dei sacerdoti e dei diaconi che trascurano queste occasioni e ricorrono a tiritere, più o meno eleganti, alla fine delle quali uno si domanda: «Ma che ha detto?».
Adriano M. Bucalo Guillois, diacono Roma
A me a dire il vero non è capitato di ascoltare 'tiritere' ai funerali. A volte magari, entrando per caso in chiesa durante il funerale di uno sconosciuto, di quelli con solo una decina di conoscenti fra i banchi, ho ascoltato omelie con pochi generici riferimenti al defunto. Ma si sa, in parrocchie di migliaia di anime non è possibile conoscere ciascuno di persona. Però il lettore ha ragione: i funerali sono una delle poche occasioni in cui viene in chiesa chi non ci va mai, e quindi potrebbero essere il momento per una riflessione. Non solo per parole blandamente consolatorie, ma per la affermazione di una certezza: non tutto è finito, in questo giorno. La bara al centro della navata è una provocazione potente per tutti i presenti. I soldi, la ricchezza, le divisioni in famiglia, le inimicizie, tutto appare come ridimensionato davanti a una bara, se non addirittura annichilito. Per che cosa veramente si vive, è costretto a chiedersi ciascuno a un funerale. Il lettore invoca i Novissimi. Certamente sono un argomento. Io però, se mi immedesimo con un 'lontano' venuto a un funerale, credo che sarei toccata, più che dal timore del giudizio e dell’inferno, dalla affermazione di una speranza. Di una speranza certa dei cristiani presenti, qualcosa che si tocchi – non un sentimento evanescente. Mentre il mondo attorno a noi guarda alla morte come a un orrido vuoto, noi sappiamo che in realtà torniamo a casa. Nella nostra vera casa, dove attenderemo quelli che abbiamo amato. È forse una differenza da poco? Morire in Cristo significa essere certo che i tuoi figli, che tuo padre e tua madre li rivedrai. Morire senza Cristo è un salto in una vertigine buia e infinita. È tutto un altro sguardo. È la speranza, la sovrana speranza dei cristiani. Quella che fece incidere ai primi credenti su una lapide in una catacomba romana la scritta: 'In vivis tu'. Tu, morto, sei fra i vivi. Ecco, a ogni funerale io vorrei toccare una speranza così.