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Il continente nero tra vecchio «hard power» e nuovo «soft power» Tra presenza militare, cooperazione e investimenti economici, Cina, Russia, Turchia, Arabia Saudita, Usa e in parte la Ue condizionano le scelte dei Paesi.
Il complesso mosaico della presenza internazionale in Africa è oggi condizionato, forse come mai prima, da instabilità politica, disuguaglianze, conflitti e vulnerabilità socio-economiche che condizionano pesantemente diverse macro aree del continente. In alcuni Paesi, come la Libia, restano incerti i processi di transizione, mentre la mobilità umana è sintomatica delle crisi che attanagliano la fascia saheliana e lo scacchiere nordorientale africano per non parlare poi di quanto avviene più a meridione, nel cuore dell’Africa subsahariana. Nell’ultimo biennio ad aggravare la situazione ha contribuito la pandemia di Covid-19, tuttora in corso. Ciò nonostante, il continente africano continua a rappresentare una grande opportunità per gli investitori internazionali, anche se le nuove polarità economiche e politiche generano grande incertezza. Da un lato, almeno sul piano formale, si afferma il multilateralismo (ad esempio tra Unione Europea e Unione Africana), anche se poi il bilateralismo regna sovrano.
In questo quadro, le scelte di politica estera per i governi africani si presentano strutturalmente problematiche. Se, infatti, negli anni della Guerra fredda le strade percorribili erano predefinite e non negoziabili, oggi le opzioni disponibili appaiono spesso confliggenti. Con il risultato che sulle questioni che contano – ad esempio l’emergenza vaccinale in Africa - si determina un vero e proprio immobilismo ben descritto dall’economista, giornalista e scrittore venezuelano Moisés Naím: «Un mondo in cui i protagonisti dispongono di potere sufficiente per bloccare le iniziative di tutti gli altri, ma nessuno ha il potere di imporre la propria linea d’azione, è un mondo in cui le decisioni non vengono prese». Almeno per ora, le organizzazioni regionali africane possono avere al massimo un ruolo sussidiario rispetto alle istituzioni internazionali, ma né le prime né le seconde sono in grado di costituire una soluzione intermedia tra le scelte imposte dalle politiche bilaterali e la rivendicazione di una politica estera africana inserita in un efficace quadro multilaterale.
Certo, tirare troppo la coperta da una parte porta a scoprirsi facilmente dall’altra, ragion per cui è davvero auspicabile che i grandi investitori oggi presenti in Africa – Unione Europea, Stati Uniti, Cina, Turchia, Emirati Arabi e Russia – promuovano iniziative protese alla lotta contro la povertà, al progresso e alla pacificazione. Questo in sostanza significa cambio di paradigma, passando dall’hard power, inteso come affermazione di un potere politico, economico e militare atto al predominio geopolitico da parte di uno Stato, alla forza attrattiva della soft power, vale a dire quell’indirizzo capace di suscitare delle affinità e sinergie su altri attori statali, ottenendo in modo non invasivo il controllo nel teatro globale senza incorrere in dispendiose situazioni di conflittualità. Tenendo bene a mente il lascito di Federico il Grande – «la diplomazia senza il potere è come un’orchestra senza spartito» – la sensazione è che nei fatti prevalga la logica del bastone e la carota.
Prendiamo ad esempio la Russia, una sorta di new entry in Africa dopo il sostanziale disimpegno seguito al crollo dell’Unione sovietica. Il Russian Export Center, un’istituzione statale di sostegno alle esportazioni creata con l’assistenza del governo di Mosca, sta orientando molte aziende russe, nell’ambito della cooperazione con i paesi africani, su alcuni settori innovativi come la metallurgia, l’industria chimica, i prodotti agricoli e i progetti infrastrutturali. Particolare attenzione è rivolta allo sviluppo delle esportazioni di prodotti di alta tecnologia russi; ad esempio, sono in fase di elaborazione progetti per la fornitura di attrezzature mediche, soluzioni high-tech nel campo dell’energia idroelettrica e solare, sistemi di comunicazione e sicurezza.
Quanto alla pandemia, c’è anche da considerare che l’Algeria è stato il primo Paese africano a registrare il vaccino russo Sputnik V, mentre l’Egitto, che alla fine di settembre ha distribuito il primo lotto prodotto localmente del vaccino cinese Sinovac, prevede di fare lo stesso con quello russo. Ma c’è un rovescio della medaglia tutt’altro che secondario. In alcuni Paesi subsahariani come Repubblica Centrafricana, Mozambico, Sudan e Zimbabwe, il business militare russo va a gonfie vele. Oltre alla fornitura di armi e munizioni, l’impegno russo si evidenzia nell’addestramento militare, nell’invio di contractor della compagnia militare privata Wagner e nello sfruttamento delle commodity. Ciò ha generato, in alcuni casi, l’irritazione di alcune componenti della società civile che considerano queste iniziative troppo invasive e ingerenti nei già difficili equilibri interni di alcune regioni geostrategiche. Per non parlare del fatto che parte rilevante degli armamenti che arrivano dalla Russia, come del resto quelle di diversa produzione, finiscono nelle mani dei gruppi armati che seminano morte e distruzione.
C’è poi la Nuova Via della Seta cinese, definita anche con gli acronimi OBOR ( One Belt One Road) e BRI ( Belt and Road Initiative), un’iniziativa prevalentemente infrastrutturale, tesa a collegare, almeno inizialmente, più di 60 Paesi in Asia, Europa e Africa, con ricadute su oltre quattro miliardi di persone. Da rilevare che nel maggio del 2017 è stata annunciata l’estensione del BRI anche ai paesi latinoamericani, e nell’ottobre dello stesso anno questo progetto è entrato a pieno titolo nella Costituzione del Partito Comunista Cinese. Come era prevedibile, il BRI è visto con sospetto dai governi occidentali, soprattutto in riferimento al meccanismo di creazione di crescenti livelli di dipendenza dei paesi coinvolti nel partenariato, quelli africani in primis, per via della loro incapacità ad onorare i debiti contratti per la realizzazione delle infrastrutture, la cosiddetta «trappola del debito». Sebbene questi timori vengano ridimensionati dai dati raccolti dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) – su 17 Paesi classificati come vulnerabili, solo per tre di loro (Gibuti, Repubblica Democratica del Congo e Zambia) i prestiti cinesi ammontano alla metà o più del debito pubblico – lo sfruttamento cinese delle commodity in Africa è fortemente invasivo.
Inoltre, la Cina, come d’altronde anche la Turchia, hanno interessi militari in Africa che non andrebbero sottovalutati. Ad esempio, la prima a Gibuti e la seconda a Mogadiscio. Da parte loro, gli Stati Uniti hanno duemila soldati coinvolti in missioni di addestramento in quaranta paesi africani e le loro forze speciali. in tutta l’Africa orientale nelle cosiddette « forward operating locations » in Kenya, Somalia e Mozambico. Anche la Francia mantiene forze militari in diversi paesi africani, sebbene alcuni di questi contingenti siano in fase di ridimensionamento, in particolare in Mali. Sotto comando francese, comunque, nella fascia saheliana è operativa la missione Takuba che impegna altri 13 Paesi europei (tra cui l’Italia) ed è finalizzata a contrastare le attività dei gruppi islamisti appunto nel Sahel e nell’Africa occidentale.
Se da una parte è necessario garantire l’incolumità delle popolazioni sottoposte ad ogni genere di vessazioni in Africa, dall’altra s’impone una radicale riforma della governance delle risorse – energetiche in primis – in senso più equo ed inclusivo. È indubbio che gli interessi stranieri legati allo sfruttamento delle commodity africane, acuiscono la destabilizzazione, fornendo il pretesto alla galassia jihadista di affermare un disordine destinato a minacciare la stabilità dell’Africa in generale e la stessa Europa.