Scrivo queste considerazioni dopo aver condiviso in maniera più o meno coinvolgente la sofferenza di amiche, mamme di figli disabili, per una malattia grave (per l’esattezza tumori), risolti in modo diverso. E dopo aver ascoltato troppe volte la stessa frase: 'Non abbiamo diritto di ammalarci'.
C’è una forza dentro agli sguardi sorridenti eppure carichi di stanchezza e dolore. C’è una vitalità nelle carezze, un amore nelle parole rivolte ai figli disabili, ma anche ai loro amici e compagni di avventure. Quel pizzico di vita in più che nessuno invidia, ma tutti non fanno a meno di notare. Un cocktail di elementi che fanno scorrere la vita delle famiglie con disabili, immerse in una normalità che non appartiene loro, e che pure le contiene, come scialuppe nello stesso mare solcato da barche di ogni tipo. Ebbene, quella forza ha un vero grande nemico: la malattia.
Sì, perché per ciascun individuo una malattia grave è un macigno che scombussola l’esistenza e la trasforma. Per un genitore, per lo più per una mamma di un disabile, la ma-lattia è un lusso, e quando arriva diventa una bomba che deflagra e scatena conseguenze difficili da calcolare. La mamma che ha passato la vita a far calcoli per programmare giornate, settimane, ma anche ore e minuti per arrivare al tramonto, per superare la notte e ricominciare, sì quella mamma non ha diritto di ammalarsi. Già è difficile proiettarsi alla vecchiaia e al 'dopo di noi', per usare un’espressione un po’ inflazionata. Diverso è ammalarsi di qualche male grave. E però può capitare. Capita. Il primo pensiero va al figlio fragile.
A come conciliare le battaglie. A cosa può accadere se accade il peggio, a come non farlo agitare, a come trovare il tempo per le sue esigenze infinite perché il tempo è sempre stato dedicato a lui, a come non gravare sugli altri familiari, a come condividere con gli altri ammalati dello stesso male quei momenti che non ti fanno sentire sola al mondo, senza pensare che da un’altra parte lui ti sta aspettando in ansia. A come a come e a come… E questa è una fase. Poi c’è il momento di affrontare la battaglia personale e vengono in mente le istruzioni degli aerei, quando le assistenti di volo spiegano che le mamme devono indossare la mascherina con l’ossigeno e solo in un secondo momento metterla ai figli. La tua vita acquista punti, e diventa quasi una priorità.
Ma anche questa fase vacilla. E poi c’è il verdetto, che in un caso (positivo) o nell’altro (quando il male prevale) ti trasforma. E quella forza che faceva sorridere il tuo sguardo, che rasserenava, trasmetteva coraggio, quella si affievolisce. Forse non si spegne, ma si smaschera, lascia emergere la nudità della persona, che è o è stata molto malata, ma che è e resta la mamma di un figlio disabile. Scrivo queste considerazioni con il cuore carico di sentimenti, che vorrebbero trasformarsi in forza da instillare nelle membra stanche delle mie amiche che stanno combattendo.
Con il ricordo di Luisa, che è andata in cielo. Suo figlio aveva solo lei, e quando le sue forze hanno ceduto, lei ha chiamato l’ambulanza. Lui l’ha vista 'partire' e si è andato a 'costituire' ai carabinieri, dichiarandosi 'colpevole', così si è sentito nella sua testa inafferrabile, di aver fatto del male alla sua mamma (con grande commozione delle forze dell’ordine). Un’immagine straziante che non mi lascia. Un grido di dolore che accompagna la mia esistenza di mamma di un amato-ingombrante ragazzo disabile.