La divisione delle classi dell'Università Avicenna di Kabul, settembre 2021 - Social media / Reuters
«Nelle università ci sono stati tanti cambiamenti da quando i taleban sono al potere. Il più importante è che molti studenti – soprattutto le studentesse – hanno perso interesse nello studio. Non c’è più la spinta ad andare avanti. Si è persa fiducia nel futuro». Siamo a Jalalabad, nella provincia orientale afghana di Nangarhar, non lontano dal confine con il Pakistan. A parlare è Sharbanah Barakzai, una giovane docente della facoltà di Legge e Scienze politiche dell’università privata Rokhan. Nei corridoi, si incontrano pochi studenti. Qualcuno, in ritardo, affretta il passo per seguire le lezioni del pomeriggio. Altri siedono ai tavoli della caffetteria. «Prima c’erano molti più studenti in giro. In poche settimane, tutto è cambiato», nota Barakzai in una pausa dal lavoro.
Università pubbliche ferme, quelle private
Il 15 agosto i taleban hanno conquistato Kabul, dopo un’offensiva militare sui capoluoghi di provincia. La fuga del presidente Ashraf Ghani ha coinciso con il collasso della Repubblica islamica, l’architettura istituzionale edificata in seguito al rovesciamento del primo Emirato dei taleban, nel 2001. Il terremoto della scorsa estate ha investito anche le università. Da metà agosto, tutte le università pubbliche del Paese sono chiuse. Rimangono aperte solo quelle private, con cambiamenti significativi. Soprattutto per le donne, su cui pesano pressioni sociali e problemi economici. «Tante studentesse hanno lasciato l’università, qualcuna è andata all’estero. Ad altre, che venivano dai distretti rurali, non è più permesso venire in città. Per tutte le donne, inclusa me stessa, il futuro è nero. Avevamo aspirazioni che non possiamo più seguire». Barakzai spiega come la transizione dalla Repubblica all’Emirato abbia ridotto possibilità e aspettative. «Qui a Legge ci si chiede: e se cambia la Costituzione, se cambiano i Codici, a cosa servirà tutto quello che abbiamo studiato? Qualcuno pensa forse che i taleban permettano a una donna di diventare giudice, procuratrice, avvocatessa?».
Studenti nel campus dell'ateneo di Malalai - Giuliano Battiston
«Ho sempre voluto fare la giudice. Ma ora non so cosa fare. E la mia famiglia mi dice “vedi, te lo avevamo detto che non dovevi studiare legge ma medicina...” ». Mariam ha 20 anni. La incontriamo nell’atrio della Muslim University di Ghazni, capoluogo dell’omonima provincia, 140 chilometri a sud di Kabul. An- che lei frequenta Legge. Il suo futuro dipende dalla longevità del nuovo regime. Per qualcuno durerà poco. Per altri, i taleban resteranno al potere. «Finiti gli studi, se ci saranno ancora i taleban farò l’insegnante a scuola. Non ci permettono di fare altro». Per Marziah, un’altra studentessa della Muslim University, è cambiato poco. «Frequento Medicina, per me non ci sono stati grandi cambiamenti. L’hijab già lo usavamo, e con la fine della guerra potrò aprire una clinica in qualche distretto rurale», quelli in cui più si è combattuto in questi anni e dove «i medici preferivano non andare». Secondo Marziah, il problema principale è economico. I libri di medicina costano. Le famiglie faticano ad andare avanti. «Molto più di prima».
Per vent’anni, dal 2001 al 2021, le istituzioni afghane si sono rette sui donatori internazionali, che finanziavano il 43% del Pil, il 75% della spesa pubblica. Sanità, istruzione, servizi di base: tutto dipendeva dall’aiuto esterno. Quando i taleban hanno conquistato Kabul gli aiuti sono stati congelati, l’economia è crollata, la disoccupazione è schizzata, l’inflazione è salita, la crisi umanitaria si è aggravata. Anche da qui deriva la decisione delle autorità di chiudere le università pubbliche. Un deficit a cui suppliscono, in parte, quelle private. «Con il cambio di regime siamo rimasti chiusi 15 giorni, appena è stato possibile abbiamo riaperto. Credo che il nuovo governo punti molto sulle università private» spiega Zia U-Rahman, vice-rettore della Muslim University. Dottorato in corso in un’università indonesiana e master all’Università di Washington, ci guida nella visita. Una libreria molto ben fornita, laboratori medici con attrezzature recenti, docenti con esperienza. Nel giardino decine di studenti sui libri. È in corso un esame di ammissione. «Prima ogni semestre entravano 200-250 studenti, ora tra 70 e 100. I curricula per ora non sono cambiati, aspettiamo le direttive, ma le classi si sono già svuotate».
Una tendenza opposta rispetto a quella degli ultimi 20 anni. Nel 2001 erano 7.000 gli studenti iscritti nelle università pubbliche del Paese, che oggi sono 39. Due anni fa, secondo il Ministero per l’Educazione, erano quasi 200.000 gli iscritti, di cui circa un terzo donne. Numeri perfino maggiori si registravano nelle università private, che nel 2001 non esistevano e che oggi sono 129. Pur controllati dal Ministero, alcuni istituti sono stati usati come luoghi di condizionamento ideologico e di soft power da parte degli “uomini forti” locali, da attori regionali (soprattutto Iran e Arabia Saudita) e internazionali, come nel caso dell’American University di Kabul, finita più volte nel mirino dei taleban. Ma la maggior parte delle università private è nata come risposta “fisiologica” all’incapacità statale di assorbire le richieste di formazione di una popolazione giovane. Grazie ai fondi stranieri il sistema formativo si è rafforzato, ma non abbastanza, non per tutti e tutte. Dallo scarto tra aspettative e richieste crescenti e mezzi insufficienti sono nati gli atenei privati. L’arrivo al potere dei taleban potrebbe interrompere la fase “espansiva” degli ultimi 20 anni.
«Al tempo del primo Emirato in tutta Kandahar c’era una sola scuola superiore e una primaria. Il resto erano solo madrasse, le scuole religiose. C’era una sola università, oggi ce ne sono 7, di cui 5 private, inclusa la nostra». Qudratullah Ahmadi è il vice-rettore dell’università privata Malalai di Kandahar, nel profondo sud dell’Afghanistan. Il campus si trova ad Aino Mina, quartiere residenziale con strade ampie e ordinate a qualche chilometro di distanza dal congestionato centro della città. Nel parcheggio centinaia di moto. Sul piazzale di terra un autobus per il trasporto delle studentesse. Sullo sfondo i minareti di una moschea. All’ora della preghiera nei corridoi e nel terreno esterno ci si ferma a pregare. Anche per Ahmadi, che ha studiato negli Usa con una borsa Fulbright, il cambiamento più evidente «riguarda il numero dei nuovi iscritti. Pur avendo ridotto i costi del 30% per le donne e del 15 per gli uomini, registriamo una riduzione del 70 80% di nuovi iscritti». Due le ragioni: «La prima è economica: con la crisi l’istruzione non è più una priorità. La seconda, soprattutto nel caso di Legge e Scienze politiche, ha a che fare con l’idea che questi studi non assicurino più un lavoro».
Tra gli studenti c’è preoccupazione, sconforto. Il terremoto politico di metà agosto ha avuto un evidente «risvolto psicologico», soprattutto per le studentesse, qui 280 su 1.500 iscritti. «Ci troviamo in una posizione scomoda – prosegue Ahmadi –. Qualche giorno fa sono venute nel mio studio tre studentesse, incerte. Ho dovuto consigliare loro di cambiare facoltà, rinunciando a Legge. Si dicevano convinte che l’Emirato durerà poco. Ma si sbagliano».
«Prima in classe eravamo 12 studentesse, ora siamo solo 6», racconta la ventenne Ruzinah Zhara, che studia Medicina. «Sono andate via dopo il cambio di governo. Due hanno lasciato l’Afghanistan. Per me sbagliano: facciamo parte della società, dovremmo aiutare i taleban a cambiare. Dopotutto che differenza c’è tra il vecchio e il nuovo governo?». La sua amica e collega Hasina, anche lei 20 anni, la interrompe: «Ma allora le studentesse dell’università pubblica? Non hanno più niente, loro. E poi, non hai anche tu una sorella più piccola? Non passa tutto il giorno in casa, come mia sorella, ora che le scuole superiori sono chiuse per le ragazze? Proprio non ti capisco – replica indispettita –. L’istruzione è la cosa più importante. Se migliora, migliora anche la società. Ma se viene impedita, si ha il diritto di cercarla altrove. Anche all’estero».
Dall’India, «dove ho svolto un dottorato », è tornato un anno fa Bahrullah Safi, rettore dell’università privata Mirwais Keena, una delle più prestigiose di Kandahar. Fornisce numeri impressionanti: «Ogni anno abbiamo due esami di ammissione. Per ognuno eravamo abituati ad avere tra i 700 e i 1.000 studenti. All’ultimo esame, venti giorni fa, si sono presentati in 76». Meno iscritti, meno soldi: «Ci finanziamo esclusivamente con le rette degli studenti. Abbiamo applicato sconti fino all’80%, ma non funziona. Il futuro è troppo incerto». I costi, invece, sono già più alti. «Le direttive del nuovo governo ci impongono di separare le classi, tra studenti e studentesse, ma questo raddoppia i costi di gestione. Prima potevamo pianificare. Ora è tutto più difficile. Siamo nelle mani di Dio».