«Signore, abbi pazienza con me» è la preghiera che papa Francesco ha fatto ieri ad Assisi. Quanta tenerezza e dolcezza in queste parole. Volano in mente i volti dei nonni, dei padri, delle madri, distesi in un sorriso che si apriva sulla fronte, prima che sulle labbra. Pazienza di fronte ai capricci, ma anche agli intrecci amari della vita giovanile. E in quella calma i nostri occhi trovavano, inaspettati, un sovrappiù di tempo, un altro giorno per poter sbrogliare la matassa, risolvere il problema quotidiano, che poc’anzi sembrava insormontabile. E il sorriso profumava promessa di un portone che si sarebbe aperto, dopo che una porta si fosse proprio chiusa.La pazienza è una parola che ha dentro il
pàtos, il
patire e la
passione, nomi e verbi di fuoco, di dolore, di urgenza, che quella sublime desinenza accoglie, culla e trasforma in pacatezza, in energia positiva, in tavola apparecchiata per l’attesa. In fiducia. C’è la pazienza di aspettare che il fiore diventi frutto. Quella della gestante che sente muoversi la vita al ritmo del suo Sogno. «Le madri devono poter sognare la loro creatura» ha scritto papa Francesco nell’
Amoris laetitia. Il Sogno è il seme e l’ostetrica dei figli. C’è la pazienza di chi crede in un progetto educativo, sociale, politico e veglia e cerca il modo migliore per poterlo realizzare, articolando idea a idea e occasione a occasione. Per fare un mondo più bello bisogna volare alto e guardare lontano. Bisogna vedere dietro ciò che appare, la trasparenza dell’invisibile, direbbe Paolo (cf
Rm 1,20).Qualcosa di simile doveva essere il "sogno" – della visione del Signore – che san Francesco raccontò a papa Onorio, quando venne a Perugia, quello di: «mandare tutti in Paradiso», che il Papa ha ricordato. Un sogno estremo, che contempla la perpetua "indulgenza" della Comunione con Dio e con tutti i Santi: «un solo corpo, un solo spirito» (
Ef 4,4). Un mondo dove la solitudine è vinta. L’isolamento, l’abbandono, la paura, la violenza, la scomunica, il rigetto, ma, soprattutto, l’indifferenza e la diffidenza. Un corpo di solidarietà e di abbraccio dove ogni membro sia unito all’altro con l’unica giuntura dell’Amore.Siccome il Paradiso non è un luogo "privato", né tanto meno individuale, un bene esclusivo, né una conquista che si fa con le elemosine, i pellegrinaggi, o altre devozioni, ma un luogo bello, vasto e fatto per accogliere tutti, vuol dire che tanta pazienza ci vorrà per popolarlo, e prima che tutti si possano presentare con la veste bianca. Il segreto, infatti, è questo: che quella veste nessuno potrebbe confezionarsela da solo, perché ognuno la fa per l’altro e non per se stesso. Il tessuto prezioso di questo concerto è il
perdono. L’arte divina di reintegrare, riconciliare, ridare dignità a chi abbia fatto il male. A chi
mi abbia fatto male. E se il male spoglia e umilia, il perdono riveste di nuovo splendore. Non solo chi lo riceve, ma prima ancora chi lo dà. E induce a riflettere e ad accorgersi di quanto male noi stessi abbiamo fatto. Il perdonare e il chiedere perdono si celebrano insieme. Nella storia di David c’è un quadretto emblematico a questo proposito: l’episodio di Simèi (cf 2Sam16). Era un uomo che, mentre il re scappava da Gerusalemme, gli lanciava sassate e maledizioni. Un amico di David voleva tagliargli la gola, ma David non glielo permise e continuò a sopportare i sassi e le parole. E quando – tempo dopo – Simèi riconobbe e chiese perdono del suo peccato, David gli disse: «Non morirai». Questo fu perché il re si ricordò dei tanti delitti che egli stesso aveva commesso, molto più gravi di quelli di Simèi, verso Uria l’Hittita. In più quello era il giorno in cui tutta Gerusalemme faceva festa e nessuno poteva mancare, neppure Simèi.Ha ragione papa Francesco quando dice che il dramma dei nostri rapporti umani è questo: «Quando siamo noi in debito con gli altri pretendiamo la misericordia, invece quando siamo in credito invochiamo la giustizia». Se la Pazienza è una Promessa, essa è anche la via del Perdono e del Paradiso.