Questa estate, anzi l’intero anno 2017, verranno probabilmente ricordati per il clamore politico-mediatico e le difficoltà suscitati dalle polemiche sulle modalità con cui in mare aperto i migranti sono sommersi (dai trafficanti e dai loro complici) o salvati (dai soccorritori, in divisa e no); ma anche – è ritornante novità delle ultime settimane – per le operazioni più o meno opache con cui i profughi che sono in cammino verso la Libia o che già l’hanno raggiunta vengono 'trattenuti' sulle coste del Nord Africa. Ci siamo resi conto una volta di più della faticosa incapacità dell’Europa nel dare una risposta condivisa al dramma di queste persone. Dei sentimenti xenofobi alimentati. E delle generose risposte offerte dalla nostra gente (provenienti anche dalle diverse realtà ecclesiali presenti nel territorio), che non hanno ancora corrispettivo nelle politiche concordate dagli Stati per affrontare seriamente le cause delle migrazioni forzate. Molti si preoccupano di quale effetto tutto questo avrà sul risultato delle prossime elezioni. Troppo pochi sembrano aver chiaro che prima di tutto ci sono in gioco la vita e il futuro di decine di migliaia di poveri (comunque essi siano arrivati sulle nostre coste, a causa di guerre o per cercare benessere) e assieme a queste vite anche molte risorse e l’impegno di coloro che li accolgono.
Quanto sta accadendo oggi avrà un impatto decisivo sull’Europa e ne potrà cambiare la fisionomia, portando anche a conseguenze indesiderate, se il fenomeno non verrà governato e orientato, magari nelle forme – come quella dei 'corridoi umanitari' – che già si sono mostrate efficaci. Per far questo urge ancor di più quella riflessione che, come detto, sembra mancare. Qui si offre un contributo a partire dalla Bibbia, ricordando alcuni elementi che sono già ben noti, ma che bisogna pur ribadire. Anzitutto, la stessa 'storia della salvezza' inizia come fenomeno migratorio, dentro una migrazione e con un popolo migrante. Abramo e Sara con tutto il loro clan escono, infatti, non solo dalla loro terra di origine, Carran (Gen 12,1-9), ma anche quando arrivano nella Terra della promessa sono nuovamente costretti ad abbandonarla e a migrare a causa di una carestia (Gen 12,10-20). In tutti questi movimenti Dio non abbandona le famiglie migranti, che pure sono sottoposte a pericoli e rischi gravi, come quello di perdere anche la vita (cfr. Gen 12,12). A causa di un’altra carestia, poi, tutti i figli di Israele devono chiedere ospitalità all’Egitto (Gen 41,56-57) e sono costretti a rimanervi per quattrocento anni, fino a quando, per la dura oppressione del regime di un faraone, gli Ebrei potranno con Mosè tornare proprio là da dove erano venuti. Immigrati sono presenti anche tra gli antenati di Gesù di Nazareth, come la straniera Rut a cui si allude nella genealogia di Gesù secondo Matteo, in apertura dell’omonimo Vangelo.
Appartenente a una delle etnìe considerate tra i popoli nemici di Israele, i Moabiti, dopo la morte del marito, originario di Betlemme, Rut emigra con la suocera, anch’ella vedova, per andare ad abitare dove sperava di trovare il pane (Betlemme, 'casa del pane'). Lì Rut lavora umilmente raccogliendo gli avanzi della mietitura dell’orzo, aiutando in questo modo la suocera e facendosi stimare, nonostante i pregiudizi da parte dei betlemmiti. L’evento più straordinario di una storia apparentemente semplice è quello per cui da un nuovo matrimonio di Rut con un uomo di Betlemme nascerà un figlio, Obed, dal quale discenderà Iesse, il padre del futuro re di Israele, Davide. Nella linea genealogica di Gesù «figlio di Davide» vi è dunque una straniera moabita; la vera e propria anomalia, tuttavia, ben notata e studiata dall’esegesi giudaica, è che la storia narrata nel libro di Rut sembra contraddire quel passo della Legge dove si prescriveva che «l’Ammonita e il Moabita» non potessero entrare «nella comunità del Signore». A ciò si deve aggiungere che la genealogia che trasmette il nome della straniera, ripresa dall’evangelista Matteo, è stata composta probabilmente durante uno dei periodi di maggiore chiusura della storia ebraica, dopo il ritorno dall’esilio babilonese, quando le liste genealogiche servivano a garantire la purezza della linea sacerdotale. La Bibbia, con il racconto di una straniera integrata nel popolo di Dio, offriva un antidoto efficace contro ogni esclusivismo e controbilanciava così possibili tendenze intolleranti.Ma a leggere bene le Scritture si scopre che la Bibbia aveva preparato anche in altro modo il terreno a una tale apertura, prevedendo una legislazione non che tutelasse gli Ebrei dallo straniero ma che, al contrario, garantisse gli stranieri residenti nella Terra di Israele. In proposito, si può vedere Es 22,20: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto». In particolare, si può ricordare una delle istituzioni più care al popolo di Dio: il Sabato. Questo santo giorno aveva la funzione di ricordare la liberazione d’Israele dall’Egitto e di umanizzare la persona: non valeva, però, solo per i figli d’Israele, visto che il riposo era previsto anche per gli stranieri (cfr. Es 23,12). Diversi sono gli stranieri, inoltre, che hanno svolto un ruolo significativo per il popolo ebraico nella Bibbia. Tra questi si deve ricordare soprattutto Ietro, il suocero di Mosè, un sapiente, addirittura sacerdote di divinità straniere, che aiutò il profeta in uno dei momenti più delicati del suo compito di guida degli Ebrei riportandogli la sposa e consigliandogli d’istituire dei collaboratori (cfr. Es 18).
Per tornare a Gesù, non si può dimenticare che egli stesso, venuto «per le pecore perdute della casa di Israele» ( Mt 15,24), ha avuto un atteggiamento positivo verso quegli stranieri che, secondo i Vangeli, lo hanno incontrato nella sua terra. Più precisamente, per due volte e con stupore Gesù deve riconoscere che la fede di alcuni stranieri (come un centurione o una donna cananea) superava quella del suo popolo: «In Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande» ( Mt 8,10; cfr. anche Mt 15,28). La stessa cittadina di Cafarnao – eletta da Gesù a essere, come scrive Matteo, la «sua città» (cfr. Mt 9,1) – si trovava allo snodo di una delle vie più importanti dell’Oriente antico, la Via Maris, che congiungeva la Siria all’Egitto all’interno di quella «Galilea dei popoli stranieri» o «dei pagani» ( Mt 4,15) che doveva essere un luogo di continuo scambio interculturale. Gesù stesso, ancora, nei Vangeli viene definito in modo ironico e dispregiativo come «forestiero» (cfr. Lc 24,18). I due di Emmaus che rimproverano con questa espressione il Risorto di non essere aggiornato sugli eventi («solo tu sei forestiero a Gerusalemme!») si pentono subito per questo affrettato giudizio. Questi due discepoli, infatti, non solo riconosceranno che lo straniero era Gesù stesso, ma comprenderanno poi che quel forestiero poteva aiutarli a vedere le cose con uno sguardo diverso, fornendo proprio grazie a una prospettiva esterna una lettura non disperata degli eventi appena trascorsi – la passione e la morte del Messia («Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele», Lc 24,21) – ma aperta, anzi, alla fiducia.
La Chiesa di Cristo, infine, secondo quanto narrato negli Atti degli Apostoli, dovrà compiere un grande sforzo per aprirsi agli stranieri, accogliendoli e facendosi accogliere dai popoli pagani. Il primo passo di questo processo, rievocato simbolicamente nel racconto della Pentecoste, sarà quello di imparare le lingue degli altri popoli, preparandosi così a quel futuro incontro tra culture che arricchirà uomini e donne provenienti dall’ebraismo di nuovi modi per esprimere la propria fede. Paolo, l’apostolo dei pagani, che pure rimarrà strettamente legato alle proprie radici religiose e culturali, potrà annunciare il vangelo di Gesù poiché cresciuto «con una triplice cultura – ebraica, ellenistica e romana – e con una mentalità cosmopolita». Fu questa la condizione perché potesse diventare «'ambasciatore' di Cristo risorto, per farlo conoscere a tutti, nella convinzione che in Lui tutti i popoli sono chiamati a formare la grande famiglia dei figli di Dio» (Benedetto XVI, Angelus del 18 gennaio 2009).
Ecco perché, detto tutto questo, nel Messale Romano sono presenti due interi formulari dedicati all’accoglienza, nelle due forme di una Messa «per i profughi e gli esuli» e di un’altra «per i migranti». Nel primo formulario la preghiera Colletta pronunciata dal sacerdote recita in questo modo: «O Dio, Padre di tutti gli uomini, per te nessuno è straniero, nessuno è escluso dalla tua paternità; guarda con amore i profughi, gli esuli, le vittime della segregazione, e i bambini abbandonati e indifesi, perché sia dato a tutti il calore di una casa e di una patria, e a noi un cuore sensibile e generoso verso i poveri e gli oppressi». Molto bella è anche la preghiera nella Messa «per i migranti»: «O Padre, che hai mandato il tuo Figlio a condividere le nostre fatiche e le nostre speranze e hai posto in lui il centro della vita e della storia, guarda con bontà a quanti migrano per lavoro lungo le vie del mondo, perché trovino ovunque la solidarietà fraterna che è libertà, pace e giustizia nel tuo amore». Come si vede, queste formule distinguono tra i vari tipi di fenomeni migratori, ma in fondo tutt’e due le preghiere, mentre chiedono a Dio l’aiuto per poter affrontare sfide che ci superano e ci spaventano, ci esortano ad avere in noi un unico spirito di ospitalità evangelica.
*Francescano, docente ordinario di Sacra Scrittura, Istituto teologico di Assisi