Marina Di Giorgi, insegnante al liceo classico a Palermo
Caro direttore,le affermazioni di Berlusconi, secondo le quali nelle scuole statali ci sono insegnanti che trasmettono agli alunni insegnamenti contrari alle convinzioni vissute in famiglia, hanno suscitato le reazioni furibonde dell’opposizione. Ma è una verità che tutti constatiamo. Recentemente un mio ex allievo di scuola media paritaria, cattolica, mi manifestava il suo sconforto, la sua impotenza di fronte ai frequenti attacchi alla Chiesa da parte dell’insegnante di filosofia. È naturale che l’alunno sia disarmato dinanzi al professore, che ha sempre ragione. Vigliaccamente approfitta di non avere davanti a sé un Vittorio Messori, un cardinale Ravasi, un professor Zichichi, ma un imberbe adolescente cattolico. Tra l’altro in quel liceo non c’è l’ombra di un Crocifisso. Alla fine di novembre la famiglia ha deciso di iscrivere il figlio nuovamente nella nostra scuola, in terza liceo, affrontando un notevole sacrificio economico, compresa la sostituzione dei libri di testo. Le sfilate vocianti con cartelli che irridono la scuola "privata" dimostrano chiaramente che tipo di informazioni si trasmettono a scuola. Chi spiega agli alunni che la loro frequenza gratuita è in virtù delle tasse pagate anche da quei genitori che mandano i figli alla scuola pubblica non statale, pagandola una seconda volta? A Berlusconi dico che, se ha quelle convinzioni, perché non consente alle famiglie di scegliere la scuola a parità di condizioni? Gli fanno comodo quei 6 miliardi di euro che la scuola non statale gli fa risparmiare! Ma si tratta di un furto verso chi ha già pagato e che nessuna nazione europea commette. E il Pd è complice da sempre.Italo Castelli, Torino
Ho scelto le lettere di due insegnanti, entrambe intense e in diversissimo modo belle e pressanti, per tornare una volta ancora – dopo le recenti e assai controverse affermazioni polemiche del premier Berlusconi sulla «scuola di Stato» – ad affrontare il gran tema dell’istruzione pubblica in Italia. Troppi continuano a usare l’aggettivo «pubblico/a» come sinonimo di «statale». Non è così: c’è una dimensione pubblica che non è dello Stato, e ci sono attività e servizi pubblici che lo Stato non promuove né eroga in modo esclusivo. La scuola, forse, è l’esempio più calzante, anche se viene continuamente scalzato – per forza o per pigrizia – dall’elenco. Proprio per questo non ci si può arrendere. E noi, da cittadini attenti al bene comune e innamorati della fondamentale libertà educativa delle famiglie, continuiamo a porre il problema e a indicare la mèta di realizzare un sistema compiuto di istruzione pubblica, capace cioè di reggersi e di procedere spedito sulle due gambe: quella della scuola statale e quella della scuola non statale paritaria. Lo ripetiamo anche oggi. Avvertendo che tutto il resto è propaganda e disinformazione, e sapendo bene che subiamo dosi d’urto di entrambe. Il danno che deriva dal non riconoscimento effettivo del ruolo pubblico (sancito formalmente dalla legge che dal 2000 attua la Costituzione, ma non assicurato da un equo sostegno economico da parte dello Stato: appena 530 milioni di euro l’anno) di una scuola paritaria gabellata per «privata» è assai grave. Tanto quello che è prodotto dalla critica indiscriminata (nonché dalla fatica organizzativa e gestionale e dalla povertà crescente pur nella formale ricchezza di risorse: oltre 57 miliardi di euro l’anno) di una scuola statale presentata come la sola davvero «pubblica». Se a tutto questo si aggiunge, e anche qui mi ripeto, la perdita di ruolo e di prestigio sociale della classe insegnante – una delle risorse più preziose di un Paese – ecco spiegato perché il quadro si fa nero e le preoccupazioni diventano sempre più pesanti e motivate. Alla scuola serve la più strutturale delle riforme: darle finalmente tutte e due le gambe, capire e far capire – come dice, con felice sintesi, la professoressa Di Giorgi – che scuola statale e scuola paritaria sono «pubbliche entrambe, amiche e non rivali». Insieme, siano la scuola di tutti.